La differenza fra odio e paura. Domande e appunti

Paura: a. Stato emotivo consistente in un senso di insicurezza, di smarrimento e  di ansia di fronte a un pericolo reale o immaginario o dinanzi a cosa o a fatto che sia o si creda dannoso […]. b. Con significato attenuato: stato d’animo abituale, o condizione costante, di timore e di apprensione

Odio: Sentimento di forte e persistente avversione, per cui si desidera il male o la rovina altrui […]

Entrambe le definizioni vengono dalla versione web del vocabolario Treccani.

La seconda modifica riguarda il termine transfobia. L’ho soppresso in quasi tutte le occorrenze. Si può patire di aracnofobia, di agorafobia, io per me sono abbastanza acrofobica. Il sentimento d’odio nei confronti delle persone trans (e di quelle straniere, razzializzate, non etero, non uomo e via dicendo) ritengo sia meglio non ridurlo a una affezione psichica: non ci fa comodo patologizzare nemmeno questo aspetto del fenomeno. In attesa di trovare qualcosa di meglio uso «transnegatività».

Questo invece, più modestamente, l’ho scritto io in coda a Contro la politica delle briciole (Tamu, 2025) e, alla luce delle notizie di questi giorni, mi pare importante ribadirlo: il sentimento che la società patriarcale (del quale questo governo è manifestazione purissima) nutre per le persone trans è odio e si traduce in negazione, ostruzionismo e contrasto. L’ultimo episodio di questo agire è il cosiddetto “DDL disforia”.

Le analisi di queste ore si concentrano sul controllo, sulla severità, sulla schedatura. A me sembra importante aggiungere alcune domande e pochi appunti a corredo di quelle riflessioni.

Domande

  • Abbiamo davvero la certezza che nella manifestazione dei nostri corpi è ineluttabilmente scritto il ruolo sociale e il destino di una persona?
  • Chi si avvantaggia e come della sclerotizzazione dei ruoli di genere previsti dal patriarcato?
  • Quale riconoscimento possono avere le persone che provano a instaurare relazioni non-cis con il loro contesto sociale se l’educazione emotiva e sentimentale ammessa è strettamente binaria e patriarcale, se tutti i progetti di educazione sessuo-affettiva sono in pericolo, se il dispositivo delle carriere alias (per quanto episodico) è sotto attacco, se il percorso di validazione medico diventa ancora più stringente?
  • Quale effetto può avere su delle persone piccole essere oggetto di analisi di equipe multidisciplinari che trattano come una malattia uno dei possibili modi rapportarsi fra umani?
  • Crescere e vivere in un contesto che ostacola, oscura e nega modi relazionali non-cis, che effetto ha sulla salute fisica e mentale delle persone trans?
  • In un contesto economico che quotidianamente erode i diritti acquisiti sul lavoro nei decenni precedenti, esaurisce il tempo e le risorse, quali chance possono avere famiglie a reddito medio-basso di accompagnare persone piccole che instaurano relazioni non-cis in un percorso che dia loro spazio, possibilità di espressione e riconoscimento?
  • Chi non rileva nello status quo e nelle nuove vessazioni governative per le persone non-etero e non-cis un carattere d’odio e un ostacolo alle loro esistenze, dove ha posto il limite? Dopo quale violenza, quale sopruso, quale coercizione pianta il paletto dell’oppressione sistemica?
  • Chi parla di “contagio trans” e delle fluidità di genere come “deriva neoliberista”, come può non accorgersi che le persone non-cis esistevano anche prima della breve stagione del diversity management e che ora, in un momento in cui capitali si concentrano e rafforzano e quella stagione terminata, tornano a rappresentare un nemico pubblico?
  • Le destre, i fondamentalisti religiosi, le frange primitiviste e gli eredi del pensiero della differenza (Terragni, Cavarero, Roccella & co.) chiedono di difendere le persone piccole che provano a intrecciare relazioni non-cis da “mutilazioni” e “bombardamenti ormonali”, ma sottomettono la loro esistenza al giudizio di psicologi, psichiatri, comitati etici di esperti. È costitutiva dell’esperienza trans la diserzione dal genere assegnato, non il ricorso alla tecnologia medica. Chi è che davvero spinge verso una ipermedicalizzazione? E con quale idea di salute individuale e sociale?

Appunti

  • È vero che ho smesso di utilizzare il termine “transfobia” (ché anche il timore di scoprirsi trans non è altro che odio introiettato) ma la paura c’entra. Le destre ci impongono di continuare ad avere paura. Paura di esistere, paura di parlare, paura di mostrarci. Il contesto sociale induce stati di ansia, angoscia, paranoia. Il “DDL disforia” pretende di «rispondere al bisogno di salute delle persone minori di età», ma quale salute c’è nella paura, nella minaccia (normata dalla legge, quindi reale) nella coercizione istituita e nel controllo istituzionale?
  • La società patriarcale ha la forma dell’esercito, l’odio per le persone trans è parte dell’odio per tutto ciò che non può essere facilmente inquadrato nei ranghi delle milizie. Il riarmo, quel 5% del PIL dirottato nell’economia di guerra non riguarda solo il destino dei territori, delle risorse economiche e il sacrificio del welfare. Dice anche che ruolo andremo a ricoprire nella società. A grandi linee: soldati e infermiere, madri di patrioti e figli sacrificati. Questa stretta sulle persone trans, quella sui diritti riproduttivi,  sul diritto di famiglia, le nuove direttive della scuola vanno tutte in questa direzione.
  • Premesso che negli ultimi dieci anni, cioè da quando è possibile aggirare l’obbligo di rimozione delle gonadi, il numero degli interventi di “riassegnazione” è drasticamente calato e premesso che nessuno ti chiede una perizia psichiatrica se vuoi tatuarti, correggerti il naso o farti un prince albert, una parte rilevante della disforia riguardante i nostri corpi è indotta dal sistema patriarcale. Siccome a determinate anatomie corrispondono precisi ruoli sociali, subiamo il condizionamento che i nostri corpi debbano essere modificati affinché ci sia riconosciuto il diritto di agire un ruolo diverso da quello previsto dalle nostre incarnazioni. Politicamente, nell’immediato, è necessario agire affinché tutte le persone che lo desiderano possano avere accesso ai farmaci e alle tecnologie in sicurezza, ma il punto a cui tendere, l’orizzonte della lotta femminista, è trasformativo della società: contestare la gerarchia istituita in base alle anatomie, disarticolare i ruoli di genere e dare spazio a tutti quei modi di muoversi e relazionarsi che sono stigmatizzati, marginalizzati, ostacolati, proibiti nell’assetto patriarcale e neoliberista.

Tutto il rumore che si sta sollevando intorno alle esperienza di vita trans è il guscio esteriore del silenzio in cui vogliono confinarci. Parafrasiamo ancora una volta Audre Lorde: impegniamoci a trasformare quel rumore e quel silenzio in linguaggio (e quindi in organizzazione) e in azioni. Ne propongo alcune piccine: a livello individuale, diserzione, sabotaggio e disobbedienza come pratica minima del vivere quotidiano, addestriamoci a contravvenire con piccole azioni ai diktat patriarcali, del capitalismo e dello stato; su un piano collettivo, invece, possiamo impegnarci a recuperare storie – non siamo un fenomeno dell’ultima ora, c’eravamo già – e memoria, le ribellioni del passato sono stelle che ci aiutano a tracciare la rotta; poniamo attenzione alle persone piccole e alle generazioni future, perché è da loro che “riceviamo in prestito il pianeta” (cit.); tessiamo e autogestiamo una politica dei bisogni: nelle case, nei quartieri, nei paesi, nelle città che attraversiamo; occupiamo spazio e tempo con pratiche conviviali e femministe. Sono tutte cose minute e difficilissime, ma se fatte insieme ci insegnano a gestire la paura e a contrastare l’odio di cui siamo oggetto.

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