Il 26 aprile scorso a Torino, al Molo di Lilith, si è reso merito alla ruvidità della penna di Luca Rastello. La serata l’ha messa in piedi Maurizio Pagliassotti insieme a Marco Gobetti, con l’aiuto di Giorgio Morbello e Mauro Ravarino. Tutta gente che Rastello l’ha conosciuto davvero.
Sul palco Pagliassotti ha chiamato anche me. Ma che c’entravo? Qualcuno mi ha chiesto se lo conoscevo. Voleva cioè sapere se Rastello era mio amico. Io ho detto che che no. Nemmeno conoscenti. Ci siamo stretti la mano due volte, ma non abbiamo avuto nulla che potesse somigliare a una conversazione.
La prima volta che ho visto Luca Rastello è stato nel marzo del 2012, a Villar Dora.
Il movimento No Tav aveva organizzato una tavola rotonda dal titolo “Informazione bene comune?”. I segni della gogna mediatica di “pecorella”, l’ultima sevizia inflitta dai media al movimento, erano ancora impressi nelle carni, il tutto nella cornice in cui Luca Abbà era ancora in ospedale, la mattanza in autostrada viva nella memoria e le righe che avevamo in faccia non potevano che essere le lacrime procurate dallo sgombero della Maddalena e dal confronto ad armi impari del 3 luglio. Il pubblico in sala aveva i nervi a fior di pelle. Forse per quello mi avevano chiamato sul palco, per stemperare il clima con le mie canzonette.
Per inciso, io avevo un braccio ingessato. Un danno collaterale. Il 28 di febbraio, uscito dal lavoro, mi precipitavo a rotta di collo per andare in Valle a dar man forte, prendevo una buca e cadevo dalla bici. Morale? Frattura dello scafoide destro e 60 giorni di gesso.
Quel giorno lì, il 24 marzo 2012, quando mi son trovato sul palco, ho esordito dicendo al pubblico di non preoccuparsi dell’impedimento fisico, nessuno di quelli che mi aveva già sentito suonare avrebbe notato differenze di esecuzione rispetto al passato.
La gente che sta spesso sul palco sviluppa dei peli speciali che misurano gli umori del pubblico. Io ce li ho sulla nuca e lungo la linea del nervo trigemino. Quel giorno lì i miei ricettori captavano roba da brividi, come quando sta per scoppiare il temporale: odore di ozono e visi plumbei. Il pubblico, gonfio di parole e invettive, rumoreggiava e non di rado gli sfuggiva qualche fulmine.
Io avevo preparato questi due pezzi: ridanciani, ma non proprio adatti a placare gli animi. Li avevo buttati giù con la mano sinistra su un blocco di appunti che non è ancora riemerso dall’ultimo trasloco. Uno era un apologo suburbano che indagava il fantomatico concetto di buona fede e l’altro era un pentalogo, si intitolava I 5 BMW del giornalismo.
Ho suonato all’inizio dell’incontro, “per rompere il ghiaccio”, e poi di nuovo dopo la pausa. Cantato il secondo pezzo, raccolti i miei applausi, sono tornato in platea.
Dopo di me interveniva Luca Rastello. Io, perdonate l’ignoranza, nonostante il servizio comunale in cui ho lavorato per anni fosse abbonato a Narcomafie, non sapevo chi fosse. Appena ha iniziato a parlare i miei peli hanno registrato una sensazione tutta diversa rispetto agli altri interventi. La gente, mi è parso, si è rilassata. Era come dicesse: “ora parla uno di noi, uno che ci difende”.
Rastello invece è partito con una filippica contro il movimento. Ha detto che ovviamente l’informazione non è un bene comune e che gli pareva che ci fosse poco chiaro che cosa volesse dire fare un giornale. Poi ha fatto un esempio. Ha spiegato nel dettaglio i ragionamenti di marketing che si erano fatti a Repubblica prima di pubblicare quella famosa lettera di Veronica Lario. Poi ha parlato di quanto guadagna un giornalista, di quanto vende un giornale e quali soldi lo sostengano davvero.
Io ci sono rimasto di merda. Non per il contenuto di ciò che diceva, ma per la finalità per cui stava usando quelle “rivelazioni”: non voleva carezzare il movimento, né confortarlo, né dirgli “cicci, poverini i media vi trattano male, avete ragione a lamentarvi”. A me sembrava volesse spingerci a porre critiche migliori, più affilate, più circostanziate, più complesse. La Boccadoro, per dire, ha passato tutto il tempo a leccarci il culo. Rastello no, e senza mai autoassolversi e anzi problematizzando sempre la sua posizione, l’ha messa giù ruvida, senza troppi complimenti. Io lì l’ho stimato.
L’altra sera, questo 26 aprile al Molo di Lilith, Pagliassotti ha parlato (poco, si è dato ampio e meritato spazio alla lettura che Marco Gobetti ha tratto dei pezzi di Luca) di questa ruvidità e l’ha spiegata attraverso Solzenycin che pare dicesse che il prezzo dell’onestà è il martirio. Fino al martirio non so, ma è certo che Rastello per forza evocativa, eleganza nell’argomentare, rigore e passione è stato uno scrittore vero, di quelli grandi e che questa cosa in vita non gli è stata abbastanza riconosciuta.
Il 28 gennaio 2015, alla presentazione di Diario di zona del mio compagno di scarpinate Yamunin, ho incontrato di nuovo Luca Rastello. Ci siamo stretti la mano e ci siamo ripresentati. Io gli ho detto che ci eravamo già visti e in quale occasione e lui ha detto che forse gli pareva di ricordare.
Questa è stata la seconda e ultima volta che ci siamo visti.
Mesi prima, stimolato da una recensione di Girolamo De Michele, mi ero procurato I buoni. Quella sera, dopo averlo rivisto, ho cominciato a leggerlo. Per un lustro ho vissuto sulla mia pelle o molto da vicino diverse delle situazioni tragiche e grottesche narrate nel libro. E, se i personaggi del libro fossero reali, giurerei che uno di loro è stato il mio supervisore di equipe. L’ho divorato I buoni. E’ stato come se tutte le mie impressioni di lavoratore del terzo settore e le considerazioni politiche su questi e quegli anni fossero rimaste a stagnare, a far muffe, in una vasca sospesa e alla buon’ora qualcuno avesse tolto il tappo e quella melma mi si fosse rovesciata addosso.
E quindi, non sono stato amico di Luca Rastello, ma dico a voce forte che gli sono eternamente grato per ciò che ha scritto. I Buoni poi, secondo me, è un libro fra i più importanti degli ultimi dieci anni e di cui si è parlato troppo poco. È giunto il momento di farci i conti sul serio, perché là dentro ci sono gli attrezzi che possono far cadere certe maschere.
Perché lui cavalca con le insegne del bene. La sua mano concede a tutti ancora un “Io ho da fare”. È l’eroe di questo tempo, è la consolazione. Combatte lui la battaglia che noi non abbiamo tempo di combattere: non vincerai mai con lui, e neppure gli toglierai la maschera. Ci sarà una suora a impedirtelo, un politico, un cantante famoso e un ragazzo pieno di ideali. Lui è il polmone artificiale che li fa respirare anche quando l’aria è carica di acido e gas velenoso, lui è la vita che ti ha catturato e mostra la sua onnipotenza e misericordia lasciandoti andare ancora per un po’, che ti permette di continuare a occuparti del lavoro, dei figli, del partito, di una guerra che scoppia o un amore che ti lascia, del tuo mestiere di rockstar o del potere che devi ancora accumulare.
Luca Rastello, I buoni, Chiarelettere, 2014