È un lungo viaggio in auto. C’è mio padre sul sedile del passeggero, alla guida un suo cugino e sul sedile posteriore ci sono io. Ritorniamo da un lavoro fuori regione. Io mi addormento, cinque minuti? due ore?, non lo so precisamente. Quando mi sveglio mi pare che sto sognando ancora. Sento la voce di mio padre che racconta cose da romanzo hard boiled, il dialetto che torna puntuale a sottolineare i passaggi più stupefacenti. Mano a mano realizzo che una minuscola parte di quei fatti li conosco, hanno per protagonista una persona – chiamiamola Mario Rossi per comodità – che a lungo ha frequentato la mia casa. Sono fatti accaduti quando ero adolescente e, lo scopro ora, mentre l’auto scivola sull’autostrada deserta, mi sono stati in gran parte nascosti.
– Come facevo a raccontarti una cosa così? – dice mio padre quando finalmente trovo la forza di aprire bocca – tu e tua sorella eravate piccoli (sic), tante cose non me la sentivo di raccontarle neanche a mamma, allora.
Glisso sul fatto che ho la convinzione che a 16 anni sarei stata perfettamente in grado di comprendere la situazione, voglio sapere il seguito. Mio padre si infila nella seconda parte del racconto, quella che porta all’arresto di Mario Rossi. È proprio lui, mio padre, la persona che si incarica di portare il pacco con la biancheria in carcere.
Si presenta a Le Vallette e chiede di consegnare l’involto al signor Mario Rossi. La guardia carceraria risponde prontamente: – Non c’è.
Mio padre trasecola: – Ma come, l’hanno portato qui oggi.
– Non c’è.
Mio padre prova a insistere: – Le spiace controllare? Magari…
– Posso controllare – lo interrompe la guardia – se è arrivato il detenuto Mario Rossi. Il signor Mario Rossi di sicuro non è qui.
Questo aneddoto – il viaggio in auto in cui l’ho appreso è già di due o tre anni fa – mi è tornato in mente ora, come un’illuminazione.
Mi alzo la mattina, mi corico la sera: vivo. Vado al corso serale, mi esibisco in giro, accompagno mia figlia a scuola, vado a lavoro quando ce n’è, faccio la spesa al mercato, vado alle iniziative di movimento. Ogni giorno mi capita che le persone usino il maschile rivolgendosi a me o si ostinino a usare il mio nome anagrafico.
Io sono una persona trans. Non sono un maschio. La mia rivolta non è contro Dio, la Natura, il Fato che mi hanno dato un corpo maschile. La storia è un’altra: mi ribello all’imposizione eteropatriarcale del genere, al fatto che le mie sembianze, i miei genitali, mi ascrivano immediatamente a un ruolo sociale al quale – è un’esigenza esistenziale e politica – mi sottraggo. Uso il femminile perché non mi sento, e mi rifiuto di essere, un maschio. È un atto di diserzione. Mi è impossibile – è una minaccia continua al mio equilibrio mentale e alla mia stessa sopravvivenza – rimanere un minuto di più al giogo di questo sistema binario, maschilista, omofobico, transfobico che dalla culla alla bara mi prescrive come mi debba comportare, di chi innamorarmi, con chi andare a letto, come vestirmi, di cosa posso o non posso parlare, cosa è conveniente che io faccia o non faccia, a quali occupazioni e servizi ho diritto di accesso. Un sistema in cui viene data per pacifica e assodata – la gente allarga le braccia, come a dire “che ci vuoi fare?” – che una persona trans (oppure donna, omosessuale, straniera, disabile, indigente, malata) sia sistematicamente discriminata. Nel caso delle persone transgender che hanno fatto coming out poi spesso l’atteggiamento è: “hai voluto la bicicletta? pedala!”. A farti pesare di essere scesa dal trasporto sicuro e senza fatica della macchina patriarcale.
Non faccio la vittima, provo a salvarmi la pelle. Lo stato, il capitale, il vaticano, i bigotti di tutte le chiese, votati a Cristo o alla Natura poco importa, passano la giornata a tracciare i confini, innalzare muri, serrare cancelli che tengano separate le creature mostruose dalle persone normali. Dentro e fuori le pareti di quelle celle in cui ci volete rinchiuse e rinchiusi, mani diverse in continuazione scrivono una domanda: a chi spetta una buona vita?
Ogni volta che mi misgenderi, ogni volta che mi dai del maschile, ogni volta che usi il mio nome anagrafico mi privi della mia dignità, mi stai chiamando “detenuto Sottile”, sei come quella guardia carceraria che vede le persone solo in base al ruolo che rivestono all’interno della sua prigione.
Quand’è che diamo fuoco alle galere?