Lo scrittore Andrea Roncaglione, di cui mi vanto di essere amico, ha scritto sul suo profilo Facebook questa cosa:
[ (1) Per quanto concerne il problema del vuoto vero, il Vuoto con la “v” maiuscola, il nemico per eccellenza di chi scrive, quello che non ti fa pubblicare i libri, non ti fa uscire allo scoperto, ti aggredisce quasi fosse una forza esterna – e non interna a te, com’è in realtà, ovvero il risultato d’un problema (grave) di autostima – era ben noto – tra gli scrittori di fantascienza di zona – uno spassoso racconto di Calogero Delmenga (probabilmente quello dei cinque messo peggio quanto a stima di sé), in cui c’era questo scrittore che aveva appena finito di scrivere e di stampare il suo romanzo, poi andava un attimo di là a farsi il caffè, tornava e trovava tutte le pagine del suo romanzo sospese a diverse altezze nella stanza e lo scrittore s’era pure dimenticato di mettere i numeri alle pagine e il romanzo era anche lunghissimo, e così pigliava la scala e si metteva a tirare giù ‘ste pagine una ad una, con le mani, la scopa e le lacrime agli occhi; oppure, adesso non ricordo bene, era lì che camminava per strada, lo scrittore, e pensava alle cose da scrivere ed ecco che arrivava il Vuoto e se lo tirava su, a tre metri di altezza, e lo teneva lì a sgambettare come un cretino finché non riusciva a pensare a qualcosa di concreto, come a che cosa cucinare per cena o a un vespasiano, e a questo punto lo mollava giù di colpo, la Merda, per cui lo scrittore era costretto ad imparare – per non rompersi l’osso del collo e per non trasformarsi in uno che pensava sempre e soltanto a cose tipo i vespasiani – a pensare alle cose da scrivere in modo più concreto, normale, a chiedersi da subito che cosa significassero quelle cose che gli erano venute in mente e perché gli fossero venute proprio quelle e non altre, a vedersele già scritte e anche a non pensare che quelle fossero delle idee ultragenialifantastiche – l’altra faccia della medaglia della completa mancanza di autostima – ma idee, semplici idee molto molto buone. Il Vuoto arrivava lo stesso, ma tirava su lo scrittore ad altezze decisamente inferiori e l’atterraggio era più morbido, e lo scrittore era moderatamente contento di questo. Il problema era che questo racconto – secondo me, una delle cose migliori di Delmenga – era viziato alla base da un errore grossolano, una confusione – in effetti strana per uno che scriveva fantascienza – tra vuoto e assenza di gravità. E gli altri scrittori di fantascienza – gli unici ad aver letto questo racconto – non poterono non farlo notare al suo autore, già affetto da una forma di complesso di inferiorità tra le più gravi che mai si sia vista sul Pianeta. Sembrava impossibile, ma no: l’autostima di Delmenga crollò ulteriormente. Per essersi confuso a quel modo, Delmenga non uscì di casa per giorni e giorni, e naturalmente quel racconto non fu mai fatto leggere a qualcuno che avrebbe potuto anche decidere di pubblicarlo, il Vuoto, insomma, aveva vinto ancora.*
* C’era anche – a giocare contro l’uscita allo scoperto di questo racconto – la solita storia del mestiere che parla di sé, e l’autoreferenzialità e balle simili, un ritegno ancestrale e vanitoso, un vero e proprio tabù che godeva di grande fortuna presso gli scrittori di fantascienza di zona e presso Delmenga stesso, come se non ci fossero state già abbastanza paure ad assillarli. ]
Poche righe più in giù trovate ciò che ho scritto in risposta al pezzo di Andrea.
Forse mi sbaglio, ma il nostro è un peana per coloro che parlano dei luoghi in cui siamo cresciuti, dai luoghi in cui siamo cresciuti e per gli abitanti dei luoghi in cui siamo cresciuti. Sono canti tribali i nostri, come Torino è la mia città. Siamo in pieno ambito punk e folk.
Appena ho letto la cosa scritta da Andrea, ho voluto condividere una storia del paese in cui vivo.
Del paese in cui vivo si dice che è un paese dormitorio, e forse per questo ci sono tanti sognatori. Si dice anche che è un posto senza storia, ed è vero, una storia forse non ce l’ha, ma è teatro di tante storie piccole e riottose. E se provassimo a tesserle tutte queste storie riottose, forse allora le cose andrebbero diversamente. Ma questa è speculazione pura, fantascienza.
Ecco un frammento della storia di Mirko De Nicola.
Ciao Andre,
questa tua nota mi fa venire in mente la vicenda artistica e personale di Mirko De Nicola, quello di Angeli contro Robot (fortunato seguito di Fauni contro Elfi).
Mirko De Nicola ha scritto e pubblicato una ventina di racconti, soprattutto su Zombi Maramao, fanzine di fantascienza e punk hardcore del collettivo orbassanese Zombi Maramao.
Quando c’erano i suoi racconti (di Mirko, dico), Zombi Maramao andava a ruba, bisognava fare addirittura le ristampe, si arrivava anche a centocinquanta copie: per Zombi Maramao significava cinque volte tanto la consueta tiratura. Tanta roba. Fatte le debite proporzioni, Mirko de Nicola era uno scrittore di successo.
Cabotaggio Editrice è una piccola e coraggiosa casa editrice di Torino. Non so bene grazie a quale strano giro, Rocco Bronte, il coraggioso e piccolo direttore di Cabotaggio Editrice, ebbe per le mani il numero 31 o 32 di Zombi Maramao. Era uno dei numeri di Zombi contro Cobra.
Zombi contro Cobra era un racconto lungo – pubblicato in tre puntate – di Mirko De Nicola. Un racconto piuttosto interessante: il tutto girava intorno a una battaglia fra zombi e cobra, Mirko era specializzato in questo tipo di racconti. Studiava alla perfezione i due contendenti – ogni volta erano diversi – li poneva su un ring assurdo: una scuola, un asteroide, il parlamento e li faceva scontrare fino all’annientamento di almeno i cinque sesti dei convenuti.
Mi ricordo un memorabile Democristiani contro Centauri. I centauri, manco a dirlo, sul piano fisico erano nettamente superiori, ma il racconto era ambientato nell’agro pontino prima della bonifica e le scene dei centauri impantanati nella palude erano strazianti, da piangere, giuro. Se non erro, gli ultimi centauri soccombevano per uno strano disastro ecologico provocato ad arte dai democristiani. Gava era fantastico, dico il personaggio di Mirko.
Ma eravamo a Zombi contro Cobra. Praticamente, gli zombi procedevano con il loro tipico incedere da zombi, senza piegarsi mai, indifferenti agli attacchi dei cobra. Il veleno dei rettili non aveva nessun effetto sugli zombi. Solo dopo un numero sufficiente di morsi, lo scontro si faceva succoso. Infatti, quando i cobra riuscivano a strappare i legamenti delle ginocchia o delle caviglie, gli zombi crollavano a terra: ecco, lì il racconto prendeva una piega interessante, perché i contendenti strisciavano tutti. I cobra per uccidere gli zombi non avevano altra possibilità che smembrarli pezzo pezzo. Contemporaneamente, gli zombi nerano costretti a decapitare a morsi i cobra, perché i cobra infettati da un morso di zombi divenivano sì degli zombi di cobra, ma ancora fedeli alla loro specie.
Lo scontro aveva luogo alla vecchia Ikea, quella di Grugliasco, di sabato pomeriggio. Non mi ricordo chi vinceva però, né se vinceva davvero qualcuno.
Comunque Rocco Bronte di Cabotaggio Editrice lesse una delle puntate di Zombi contro Cobra e ne fu molto impressionato. Di lì a poco commissionò due romanzi a Mirko e li vendette piuttosto bene.
Sul primo ci mise molto le mani: figurarsi che Mirko lo aveva pensato come Fauni contro Elvis, un epocale scontro fra flauti di Pan e chitarre elettriche. La versione deturpata da Bronte (Fauni contro Elfi) è invece un polpettone fantasy che delle classiche storie alla De Nicola conserva ben poco. Col secondo romanzo, Bronte si tenne più in disparte e infatti Angeli contro Robot è considerato il capolavoro sulla lunga distanza di Mirko De Nicola.
I problemi per Mirko cominciarono proprio con il successo. Lo invitarono a presentare il romanzo al Festival della letteratura di Mantova. Nessuno sa di preciso con chi parlò in quei giorni, ma tornò a casa con la mente distrutta dalle mappe concettuali.
Da allora, sono ormai sei anni, non scrive nemmeno una riga. Se vai a casa sua e gli chiedi a cosa sta lavorando, apre un programmino Linux che si chiama VYM (View Your Mind) e ti mostra schemi e mappe concettuali tentacolari. Quando gli chiedi cosa sia quella roba, risponde con gli occhi spiritati: “è una storia”.
Se gli parli dei suoi racconti e dei suoi romanzi precedenti ti dice che “quella è tutta robaccia”. Se gli chiedi “perché?”, ti risponde: “manca tutto il contesto sociopolitico e soprattutto si vede che non c’è una mappa concettuale di partenza”.
Se gli fai notare che le sue vecchie storie, pur con tutti i limiti del caso, piacevano molto, mentre le nuove continuano a essere solo mappe concettuali e nessuno ne sa nulla, ecco, se gli fai presente questa cosa, lui dice che “la gente non capisce un cazzo”, ma che lui scrive per la gente e per far la rivoluzione.
Io politicamente mi sentivo molto vicino a Mirko. Ora invece, se devo dire la verità, non ci capisco più niente. Forse le cose che scriveva una volta erano davvero “selvagge”, lui ora usa questo termine, con spregio. Però, nelle sue vecchie cose, io una prospettiva politica ce l’ho sempre vista. Mi ricordo un Mosche Tzè Tzè contro Stakanovisti che mi aveva permesso di capire che la mancia fa più piacere al datore di lavoro di quanto ne faccia al dipendente e che permette allo sfruttatore di abbassare ulteriormente i salari. Ovviamente questa cosa non era scritta nel racconto, però in qualche modo c’era, perché io l’ho capita leggendolo. Non bisogna dare la mancia, mai. Bisogna dire al titolare: dagli più soldi a questa/o qui, vengo in questo locale di merda solo per lei/lui e se lei/lui sta male non ci vengo più”.
E io senza quel racconto mica la capivo questa cosa.
Mi dispiace averla fatta così lunga, ma ci tenevo a raccontare questa storia di Mirko.
Anche questa vicenda parla della difficoltà di farsi leggere dagli altri. Sono sei anni, sei!, che Mirko De Nicola non butta giù un racconto dei suoi. Erano dei bei racconti, a noi piacevano un sacco.
Chiudo dicendo che mi manca anche quella fanzine, Zombi Maramao. Irene ed io ce la leggevamo sui gradini del liceo sghignazzando: ci sembrava che il tramonto si sarebbe dilatato fino a che stavamo lì.
E al liceo non ci andavamo più da almeno un lustro.