È il 4 luglio. Sono passati 11 mesi dalla prima uscita di La punk spiegata alla nonna. Sono di nuovo al Molo di Lilith. È uno dei pochi posti in città in cui si fa ancora teatro. Conosco bene questo palco, mi piace come vibra questa sala, adoro l’intimità che si crea qui con il pubblico.
La punk si porta nella pancia tre canzoni dei Disperazione. Due in particolare svolgono una funzione ubicante: una svela il legame con la Sicilia, filtrata nelle filastrocche di mia nonna, e l’altra con il territorio in cui ho vissuto la mia intera esistenza. Un legame che viene urlato e irriso e pianto e messo alla prova, riconosciuto e celebrato. Quelle canzoni (Nasca Patasca e Vieni a vivere a Rivalta si intitolano) composte entrambe nel 1996, mappano un aspetto importante di me: sono una terrona nata e vissuta a nordovest, nella periferia occidentale di una grande città industriale, Torino. Ora come allora, quei pezzi raccontano meglio di tante parole, un mio posizionamento sociale e culturale. Che era poi il posizionamento dei Disperazione, tutti nati e cresciuti nello stesso contesto, tutti figli di persone emigrate in Piemonte.
Comunque è sempre il 4 luglio. Arrivo al Molo, scambio chiacchiere con le persone che ci lavorano, monto il mio set, mi scrivo un monologhetto che voglio inserire per l’occasione, poi con un bicchiere di barbera in mano, esco nel cortile, dove ci sono tavole già apparecchiate e mi siedo con Sergio e Edo che sono stati bassista e chitarrista dei Disperazione. Sergio questa sera vedrà la punk per la seconda volta, Edo invece non l’ha vista mai.
– Faccio dei pezzi dei Disperazione stasera…
– Ma davvero? – mi fa Edo.
Più tardi sul palco, quando sto per suonare Nasca patasca, lo dico: – Stasera sono presenti ben tre dei Disperazione…
– Quattro!
È arrivato che la sala era già al buio, non l’ho visto, c’è anche Riqu, il batterista.
– Oddio, che emozione, siamo tutti! Alla fine dello spettacolo vi facciamo la reunion!
Risate dal pubblico.
Lo spettacolo giunge al termine, sui saluti finali, io li chiamo davvero i Disperazione sul palco e scambiamo due battute, con quel tipico humour orbassenese di cui siamo tuttx e quattro cultori e cultrici. Per me la reunion è fatta.
Invece no. Max del Molo insiste: – Dai, la vogliamo davvero la reunion, la facciamo qui, fissiamo la data.
Il 9 ottobre scorso, l’altro ieri, dopo 19 anni, mi sono ritrovata sul palco con i Disperazione, a cantare quelle canzoni con i miei compari di allora. Sì, mi sono divertita, ma non è stata una goliardata, né una rimpatriata nostalgica. E anzi, posso dire, una doccia di disagio.
Per me suonare in una band, suonare la punk, fare i pezzi nostri, non era un hobby qualsiasi, uno svago. Libri da leggere ne ho sempre avuti, sapevo perfettamente come passare il tempo. Suonare la punk, per una persona timida e intimidita come me, per una persona repressa come me, era un’affermazione di me stessa, un tentativo di liberazione, di evasione dalle mie prigioni. Ma anche un modo per evidenziare la frustrazione di non saperne uscire.
I Disperazione non son mai diventati una band dal grande seguito e io, al contrario di quanto mi si dice ora, in quegli anni ero tutt’altro che un animale da palco. Non saltavo, non mi mettevo in mostra, non mi muovevo quasi, non stavo a petto nudo, non staccavo nemmeno il microfono dall’asta – cominciavo, sì, con dei monologhetti declamati su “pedale” a sperimentare la mia formula di teatro-canzone – ma allora non avevo nessun dialogo con il pubblico, non andavo oltre al “grazie” fra un pezzo e l’altro. Mi ricordo che quando fantasticavo di come sarei stata sul palco, mi immaginavo con gli occhi spiritati e la sensualità ambigua di Joan Jett e invece, alla prova dei fatti se va bene, ero più patetica di Winnie The Pooh.
Per tirare su questo concerto abbiamo ascoltato Dinamica meticcia, la nostra unica demo. l’abbiamo registrata nel 1999 nel sottoscala di quello che oggi si chiama Spazio 211. Avevamo un turno da due ore, la prima metà se n’é andata nel fare i suoni, nella seconda abbiamo inciso 37 minuti di musica, il che significa che i pezzi li abbiamo fatti praticamente uno via l’altro, buona la prima. In quel disco ci sono solo alcune delle nostre canzoni. Altre sono andate perdute, la mitica Ragazzina propaganda, per esempio, Lady morte e anche la mia preferita che si intitolava Nel piano universale e poi altre ancora. Il quaderno coi testi dei Disperazione è scomparso durante uno dei miei traslochi e non tutte le cassette sulle quali Riqu incideva le nostre prove sono ancora state sbobinate.
Durante la registrazione di Dinamica meticcia, io ero separata dal resto della band da un vetro spesso, quel giorno le cuffie non funzionavano o non ce ne erano a sufficienza per tutti e io ero rimasta senza. Sentire, non sentivo un cazzo, cercavo al massimo di intuire a che punto dei pezzi fossero i miei compari. Per questa ragione nel disco ci sono più cappelle di quante già normalmente ne facessi di mio. In un pezzo in particolare sono completamente fuori tempo, dall’inizio alla fine e forse non è un caso che sia proprio quello. Si chiama Perversioni di nylon ed è quanto di più vicino potessi permettermi a 18 anni come coming out da frocia. La seconda strofa dice.
Ho bisogno di una casa
che non venga mai rasa al suolo
che si mantenga in rovina
che sia grande e piccolina
per noi swahili infantili
per le nostre perversioni di nylon
Quella casa è il luogo in cui avrei voluto incontrare altre persone come me, persone che si sentono straniere, aliene (swahili) e che (infantili) hanno bisogno di crescere insieme.
Mercoledì sera, al Molo, mi sono sentita riproiettata laggiù, in quel senso di mancanza, di vergogna, di afasia, di impotenza. Ha rifatto capolino la mia attitudine all’autoflagellazione pubblica, la mia timidezza. Tutta un’altra Filo rispetto a quella furiosa, gioiosa e orgogliosa che si vede nella Punk spiegata alla nonna. A ribadire che il sollievo non è mai una volta per tutte e che le nostre vite sono un ricamo e a volte ci tocca di tornare un pochino indietro per guardare un pochino avanti.
Epperò sono stata felice di ritrovarmi di nuovo insieme ai miei fratelli a suonare. Non solo per la nostra amicizia, in quella band c’era qualcosa che riconosco ancora come mio. Nei giorni scorsi ho provato a chiedermi perché ci chiamassimo Disperazione, perché avessi proposto quel nome. E non lo so o non lo so più. Ma a posteriori so che speranza non ne ho avuta mai, desiderio di essere pienamente me stessa, sì. L’ho detto l’altra sera durante il concerto, avevamo la morte nel cuore, però scanzonati. La stessa attitudine dei Monty Python quando invitano a guardare al lato luminoso della vita.
Qui sotto ci sono dei montaggi volanti della nostra unica prova pre-concerto. Umorismo orbassenese e attitudine. Ci vediamo alla prossima reunion. Fra altri 19 anni. Nel frattempo, godetevela.