Stamattina ho accompagnato mia figlia a scuola, poi di corsa a casa e – a voce fredda, dita ghiacciate dalla pioggia novembrina, senza l’ausilio di un goccio di vino – ho registrato “buona la prima” una cover di Rosa canta e cunta, la canzone manifesto di Rosa Balistreri. Mi è venuta così così e con una mezza risata a commentare una cappella: avevo i minuti contati per andare a lavoro. Comunque, eccola qua:
Quel testo, quella canzone, la voce con cui la canta Balistreri obliquamente dicono qualcosa di questo libro mio, Senza titolo di viaggio. Storie e canzoni dal margine dei generi, che uscirà ufficialmente il prossimo 9 dicembre. Cantu e cuntu significa canto e racconto, proprio ciò che si fa con le “canzoni” e le “storie” menzionate nel sottotitolo, mi piace pensare che anche questo libro stia nel mio lavoro di punkastorie, di cantastorie punk. La prospettiva è dal basso, come il testo, la voce e l’arrangiamento di quella canzone. Ma le convergenze non si fermano qui:
Stasira vaju e corru cu lu ventu a grapiri li porti della storia
Corre con il vento Rosa, sotto la spinta dell’urgenza. Così è stato per me. A gennaio scorso avevo tutti degli altri progetti di scrittura. Avrei voluto mettere mano al copione del mio Il decoro illustrato per aggiornarlo alla luce delle nuove vicende pandemiche, avrei voluto lavorare a una appendice a La mostruositrans da allegare a un’autoproduzione cartacea di Mostre & Fiere, avrei voluto scrivere un racconto di sci-fi speculativa e altro ancora, ma i miei piani si sono scombinati tutti. Le vicissitudini di quotidiana transfobia di stato mi costringevano a guardare altrove.
Vivevo in questa situazione in cui – forse per la prima volta – l’omolesbobitransfobia era diventata di colpo un tema da prima pagina dei giornali, ma questo non migliorava nemmeno un briciolo la vita delle persone frocie e anzi – me ne veniva fortemente il sospetto – c’era il rischio che quasi la peggiorasse. Il dibattito intorno al ddl Zan mi sembrava asfittico, così come quello, decisamente minoritario, sorto in quei mesi di inizio 2021, intorno alle carriere alias per le persone trans e non binary.
Ho sentito che dovevo farlo, dare una forma alla selva di sentimenti, passioni, riflessioni che mi si agitavano dentro. Ho cominciato a scrivere ciò che mi stava succedendo sul posto di lavoro in quanto persona trans – un apologo fra Kafka e Fantozzi in salsa gender – affiancato a un tentativo di analisi transfemminista del dispositivo transfobico strutturale. Ne è venuto fuori un lungo pezzo, quasi centomila battute, che doveva apparire on line in due puntate su Giap, il blog della Wu Ming Foundation, il 14 aprile 2021: trentanovesimo anniversario della legge 164/1982, “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”.
Ci ho lavorato due mesi e mezzo, ho studiato, ho letto, ho scritto molto, ho riscritto ancora di più, ho coinvolto amicx che mi hanno regalato aneddoti, consulenze, sguardi. Confesso che quando, due giorni prima della pubblicazione, Wu Ming 1 mi ha chiamata e mi ha proposto di pazientare un po’, di lavorarci ancora e farne un Quinto tipo quasi mi sono incazzata. A dispetto del piacere enorme di ricevere una proposta editoriale e per giunta in una collana così prestigiosa, c’era il fatto che volevo intervenire subito nel dibattito: proporre visioni, riflessioni che mi sembravano necessarie. Wu Ming 1 mi ha chiesto:
«Se queste riflessioni le proponi fra qualche mese pensi che saranno diventate inattuali?»
«No, anzi, c’è il rischio che siano ancora più attuali…»
Ho interrogato il vento che mi aveva fatto correre in quei due mesi. Sì, soffiava ancora, ancora avrebbe potuto trascinarmi avanti a spalancare porte e farci entrare l’aria.
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Senza titolo di viaggio è un libro molto politico nelle intenzioni, ma che mi è uscito anche molto intimo. Ho aperto, tra le altre, un bel po’ di porte della mia storia. Di nuovo colpa dell’urgenza. Walter Benjamin nella sesta delle sue Tesi di filosofia della storia scrive:
Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «come propriamente è stato». Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo. Per il materialismo storico si tratta di fissare l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al soggetto storico nel momento del pericolo. Il pericolo sovrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.
Il conformismo ci schiaccia anche in questa epoca che si vende come aperta, libera e anticonformista. Il nemico (l’eterocispatriarcato, il neoliberismo) in maniera talvolta subdola e talaltra plateale sta stravincendo, forte della sua violenza e della sua pervasività. Tocca opporci con ogni mezzo necessario. Stanno uscendo libri che vanno proprio in questa direzione, ne cito solo uno fra molti meritevoli: Caccia alle streghe, guerra alle donne (Nero, 2019) di Silvia Federici. L’operazione esplicita è recuperare immagini del passato con la stessa attitudine con la quale si disseppelliscono asce di guerra, con l’obiettivo programmatico di combattere. Quelle immagini del passato sono come oggetti raccolti da terra e divenuti impropri dispositivi di difesa.
Ho sentito il bisogno di aggiungere la mia voce a quelle di chi già contrasta il nemico. L’ho fatto con quelli che sono i miei mezzi, le mie capacità e le mie possibilità di adesso.
Il pericolo che fiuto, l’urgenza di intervento che ne deriva, mi ha richiamato alla memoria dei miei ricordi. Ho provato a impadronirmene e a usarli come arma di lotta, azione diretta, intervento: per andare in soccorso delle esistenze delle creature vive (inclusa la mia) e mettere al riparo dallo sciacallaggio le spoglie delle creature morte; per schierarmi chiaramente dalla parte di li malannati e contro quel putiri che ‘nforza li putenti e, in definitiva – in un’era che cancella e svuota di senso le ribellioni e le rivoluzioni e veste di un’aura gentile, gloriosa e progressista le restaurazioni autoritarie – pi nun perdiri lu cuntu, per tenere il conto aggiornato. Pagherete tutto.
Ne è venuto fuori un libro straccione, vestito di ciò che ho raccolto per strada: cenci, drappi, indumenti di molte epoche e di molti stili. E ne è uscito un libro rabbioso, come lo è la canzone di Rosa. Quando canta grapu li pugna, significa che quei pugni che ora apre erano chiusi, come quelli di chi è furente e sta lottando.
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Quinto tipo è una collana di scritture ibride e non-fiction creativa. Se stiamo al genere, Senza titolo di viaggio è perfettamente in linea. Ci sono dentro dei passaggi da pamphlet, canzoni, excursus saggistici, tanti aneddoti, composizioni in versi e anche pagine di diario. Proprio una di queste appare in quarta di copertina. La parola in corsivo è “lagnusa”. È una parola siciliana e, per chi non bazzica quella lingua, suona come “lagnosa”. Prendiamo per buona un attimo questa (scorretta) traduzione. Nel numero di ottobre 2021 della newsletter Ghinea ho letto e amato queste parole:
Lamentarsi è una pratica di pedagogia femminista: si agisce accettando ripercussioni per sé stesse nella speranza di essere le ultime, che nessunx in futuro debba ritrovarsi in condizioni simili.
Senza titolo di viaggio è senza dubbio una lunghissima rimostranza, rabbiosa e, spero, riccamente – benché liricamente – argomentata. Ancora una volta è nella linea tracciata da Rosa canta e cunta. Mi tolgo dalla schiera di chi mutu se ne sta, conscia che il silenzio ammazza. Lo dico a ragion veduta: proprio l’impossibilità di prendere parola e l’assenza di un discorso intorno a certi temi mi ha quasi uccisa. Laddove regna il silenzio il meglio che ci possiamo aspettare è lu favuri ca sparti chi cumanna. Ma a noi qui, le persone transfemministe, non ci interessano le concessioni, i contentini, le toppe che salvano il sistema. Vogliamo un ribaltamento del paradigma. Una rivoluzione.
Lagnusa tuttavia ha un altro significato: vuol dire “refrattaria al lavoro, alla fatica”. Quando mi hanno proposto di mettere in evidenza quel brano, ho accettato subito proprio per quella parola, perché se c’è una morale in questo libro è che l’unico lavoro che davvero vale la pena collettivamente fare è quello che ci permette di smettere di affaticarci per il profitto di pochi, mancare di collaborare con l’eterocispatriarcato e la sua incarnazione economica neoliberista, scioperare. L’otto marzo e tutti gli altri trecentosessantaquattro giorni.
Ci incontriamo per le strade.
PS: Senza titolo di viaggio è anche tante altre cose e cercherò di raccontarle qui, in alcuni post che ne anticipano l’uscita, nelle presentazioni che verranno e in una riduzione per voce e ukulele alla quale conto di cominciare a lavorare prestissimo. Qui ho aperto la pagina web del libro. Ci sono elencate alcune date, quelle di dicembre ancora non compaiono perché sono in via di definizione: a prestissimo con gli aggiornamenti.