Eccoci alla terza puntata de Le cose che non ho scritto. Qui si racconta della genesi di Salgaria!, il romanzo che sto scrivendo e di come, dopo quasi un anno di lavoro, fossi sul punto di buttare a mare pure questo progetto.
4. La sindrome del romanzo definitivo
Poco dopo sono andato in camera da letto – Sara ed io viviamo in un bilocale, la narrativa la teniamo in una libreria che incombe sulla testiera del letto – ho preso in mano Lo Spleen di Mompracem, ho riletto la nota introduttiva e mi son chiesto:
«Ma perché mi sto amminchiando con Salgari? Solo perché ho promesso una trilogia salgariana? Che ci vuole a dire “non sono capace”? O “non mi interessa più”? Posso farlo. I miei venticinque lettori capiranno».
Quando torno in cucina ho deciso: L’Opra di Sandokan, come già accaduto a L’inferno delle Sunderbunds e a La ragazza chiamata No, finisce nel cesso.
Passo dicembre e mezzo gennaio saltabeccando da una lettura all’altra, senza direzione, senza criterio. Mi rituffo dopo anni nel Silmarillion, divoro La mano sinistra delle tenebre, uno dei romanzi di Ursula Le Guin che ancora non ho letto, centellino Le favole della dittatura del giovane Sciascia. Ma le buone letture non mi aiutano, mi sento come una vacca alla stazione della metropolitana, treni a volontà e neanche un ciuffo d’erba.
Il 19 gennaio 2012 Sara ed io ci imbarchiamo su un aereo diretto a Trapani. Il 23 devo essere a Noto (SR) perHo appuntamento per parlare dello Spleen di Mompracem e di Salgari. Abbiamo deciso di scendere qualche giorno prima per far visita al parentado isolano. Sono i giorni della Rivolta dei Forconi, noi su un auto a noleggio attraversiamo una Sicilia corrusca e spettrale, con l’occhio fisso sulla lancetta del carburante e gli altri sensi protesi a godere dei movimenti della nascitura nel pancione. Prima Marsala dal ramo materno, poi nel messinese per quello paterno, infine poi Noto.
L’organizzazione di Volalibro ha deciso di affiancarmi un partner: Clemente Pernarella. Condurremo insieme l’incontro. Di lui non so nulla, se non ciò che ho appreso dal web, cioè che è stato attore di CentoVetrine e che ha diretto uno spettacolo teatrale sulla vita di Salgari. Mentre guido sulla A18 non posso negare a me stesso di essere un po’ preoccupato.
Il 22 sera Clemente ed io ci facciamo una lunga chiacchierata, cerchiamo di scambiarci le idee sull’incontro dell’indomani. Gli sintetizzo le tappe del mio discorso, poi a un certo punto passo in rassegna le ragioni militanti, le ragioni “da sinistra” per le quali vale la pena leggere Salgari oggi.
Accenno al fatto che si può annoverare Salgari fra quegli scrittori che hanno indotto i lettori ad agire. Faccio presente a Clemente che diversi partigiani scelsero nomi di battaglia salgariani e che Paco Ignacio Taibo II, oltre a definire il suo anticolonialismo più salgariano che leninista, asserisce che Ernesto Che Guevara lesse in gioventù sessantaquattro romanzi del nostro.
Clemente mi ferma e mi dice:
– Sì, ma già prima, durante il fascismo, si tentò una rivalutazione di Salgari.
– Ah sì? Leggi questo!
E gli porgo la stampata di un articolo uscito il 16 marzo 1928 su “Il Popolo d’Italia”, l’ha scritto Margherita Sarfatti, ispiratrice della politica culturale del fascismo, biografa e amante di Mussolini[4].
I libri di Salgari non sono eroici: trasudano un basso erotismo, non di rado associato a una specie di pur basso e anche morboso compiacimento del crudele e del sanguinario. Ma soprattutto (…) sono libri di spirito profondamente antifascista per due ragioni fondamentali:
1) esaltano la rivolta, l’indisciplina e la disobbedienza alle autorità legalmente costituite della società e dello Stato;
2) sono libri anticoloniali, dei quali il protagonista è sempre un indigeno, oppure (ed è ancora più grave) un bianco capo di indigeni o pirati o banditi in rivolta contro i colonizzatori.
Ora, tutti oramai sanno che ogni dominazione coloniale è basata su questa convinzione, nel fatto e nello spirito: l’inevitabilità dell’uomo bianco e la necessità della sua vittoria. […]
Lasciamo stare che Salgari scrive male, in illeggibile e impossibile italiano. è ancora il minore dei guai, per quanto non trascurabile. Il guaio è che “pensa” male; o per dire meglio non pensa affatto. […]. Gli eroi del Salgari sono quel genere di gente i quali, se vedono un ladro fra due guardie, (…) gridano: molla! molla! e se il ladro scappa, lo favoreggiano, invece di dar man forte ai carabinieri e dicono: povero diavolo! e non: brave guardie. Questo tipo, del cittadino in rivolta, è il tipo antiitaliano e fazioso della vecchia Italia che il fascismo rieduca, muta e rinnova.
– Sì – mi dice Clemente – conosco questo scritto, ma so che molti fascisti della prima ora ebbero fra i loro ispiratori Salgari… e poi durante l’occupazione dell’Africa Orientale il fascismo voleva intitolargli una città dell’Etiopia.
– Questa non l’ho mai sentita.
– Sta scritto nella biografia di Arpino e Antonetto[5].
La sera successiva sull’aereo che ci riporta a casa, sono preda di un ritornello ritmato che mi si è attaccato al cervello e che mi mette in agitazione, gira con metro irregolare su Chi fermerà la musica dei Pooh e fa più omeno così:
Salgaria, città dell’Etiopia!
Salgaria, città dell’Etiopia!
E un uomo non si addomestica
taratà Salgaria è magica
Sara a un certo punto mi preme una mano sul ginocchio, per fermarlo:
– Che c’hai? T’ha punto la tarantola?
– Sindrome da economy class.
– Ma se non siamo ancora partiti! Sputa, che c’hai?
– Niente, pensavo a quella cosa che ha detto Pernarella.
– Quale cosa?
– Che i fascisti volevano chiamare Salgaria una città dell’Etiopia… mi sembra così improbabile.
– Perché?
– È un po’ come se Giulio Cesare avesse deciso di dedicare a Spartaco una città della Gallia appena sottomessa. Con un nome così una ribellione è il meno che ti può capitare… è un’idea grottesca!
– …
– Sì, certo, ho capito, il fascismo è grotteso…
Giunto a casa controllo, effettivamente a pagina 132 di Salgari, il padre degli eroi gli autori scrivono:
Erano gli anni [1938-39] in cui si voleva battezzare Salgaria una città etiopica.
«L’idea di chiamare Salgaria una città coloniale – mi dico – è il distillato di tutta l’ignoranza, la grettezza e la spocchia del fascismo».
Ma più rileggo la frase più la cosa comincia a puzzare di bruciato: Arpino e Antonetto lasciano cadere l’informazione senza specificarne la fonte, e nessuno degli altri biografi salgariani la riprende né in cartaceo, né sul web.
Decido di scrivere a Claudio Gallo, autore con Giuseppe Bonomi di una bella biografia salgariana. Nel giro di poco ricevo risposta: mi scrive che ha sempre dubitato molto di quell’affermazione e ipotizza che possa essere nata da una trovata di un giornalista del “Raduno”[6].
Bufala giornalistica o no, la cosa mi stuzzica. E mentre cerco fra gli scaffali della biblioteca comunale dei saggi storici sul colonialismo italiano, già lo so: sto per cominciare a lavorare a una storia ambientata nella fantomatica città di Salgaria.
Siamo a febbraio. Fino a settembre lavoro tranquillo: studio, prendo appunti, e butto giù schizzi, spunti narrativi, personaggi, situazioni.
A un certo punto la vertigine, come quando traffichi a lungo a capo chino e ti alzi di scatto e senti che il mondo fa la piroette forte forte. Mentre la testa gira, ti aggrappi da qualche parte e cerchi di riallineare il tempo che è trascorso per te e ciò che vedi intorno.
La vicende del nostro colonialismo benché ampiamente e seriamente studiate da storici valenti, nel nostro paese sono state ampiamente rimosse (vedi anche qui). Continuiamo a percepirci come italiani brava gente. Percezione che davanti all’uso indiscriminato degli aggressivi chimici, al pogrom di Addis Abeba, all’eccidio di Debrà Libanòs (solo per citare gli episodi più eclatanti), si sbriciola come un biscotto.
«Queste cose devo raccontarle, raccontarle tutte».
Ma gli spunti narrativi che sto abbozzando mi sembra non siano abbastanza, ho l’impressione che non siano sufficienti a raccontare tutta la spinosa vicenda della guerra e dell’occupazione dell’Etiopia. La nuova parola d’ordine è ora: «Di più! Di più!»
Metto quindi a punto un arzigogolato sistema di flashback che allarghi il già ampio excursus temporale della storia (1938 – 1941). E l’elenco delle idiozie non si conclude qui. Fra ottobre e novembre entro in uno stato frenetico, e letteralmente ingozzo Salgaria di sottotrame, situazioni e personaggi, con l’obiettivo folle di mappare storicamente e geograficamente l’intera l’Africa Orientale Italiana.
«Questo romanzo – mi dico – deve prendere in considerazione ogni aspetto della questione coloniale e della vicende salgariane sotto il fascismo».
Solo?
Poi viene dicembre e riguardando tutto il materiale prodotto mi rendo conto di nuovo di non saperci ricavare nessun romanzo. Ma questa volta è diverso, non si tratta della debolezza dei personaggi, né della vaghezza dell’idea guida e nemmeno di deficit di studio. La questione è un’altra: sono per la prima volta davanti allle questioni che pone allo scrittore il romanzo storico, benché io tecnicamente mi stia cimentando con un’ucronia. I miei appunti sono tentacolari, senza centro, senza direzione. Incrociano e collegano gli eventi, le considerazioni, le scoperte degli storici coloniali, senza dar mai l’impressione di passarci attraverso. Ma la cosa più spiacevole è che più che un romanzo mi sembra di aver imbastito tanti piccoli episodi, tutti tesi a dimostrare matematicamente quanto sia stata mostruosa l’occupazione italiana dell’Etiopia.
L’angoscia mi grava sul petto, mi sento solo e sperduto in un territorio ostile. Neanche l’idea delle storie di fantascienza nel cassetto mi dà sollievo e fiducia. Nell’osso cranico, proprio lì dietro l’orecchio, risuona una vocina. A volersi sforzare, se proprio si vuole provare a decifrare, pare dica:
«Scrittore? ‘Sto cazzo!»
L’8 dicembre, anniversario della riconquista di Venaus da parte dei No Tav, sono in Val Clarea. Nonostante tutto si respira una bella aria. I battaglioni dei veterani dell’antisommossa sono sullo sfondo, in prima linea ci hanno messo dei pivelli con le facce stupite e disorientate. Turi Vaccaro scalzo nella neve gli legge poesie mentre un gruppo di ragazze agguerritissime gli tapezza scudi di adesivi e scandisce slogan femministi uno più bello dell’altro.
Più tardi percorrendo a ritroso la strada sterrata che dal cantiere porta a Giaglione, mi salta via l’ennesimo gancio degli scarponi. Faccio il conto, le calzature in primavera compiranno dieci anni e dall’inverno scorso sono in lento ma inesorabile disfacimento. Penso a quante ne abbiamo passate insieme, sorrido fra me e poi stop. Mi pianto in mezzo al sentiero, costringendo la genta a dribblarmi. Qualcuno mi chiede se sia tutto a posto.
– Sì, grazie.
Riprendo a camminare con l’espressione di quando vinco a mercante in fiera. Lancio un’occhiata grata ai miei piedi. Ho in testa un nuovo progetto per un libro. Poi ridacchio fra me: di questo passo, presto supereranno i capelli.
«Basta Salgaria! scriverò Requiem per i miei scarponi».
L’idea è questa: si tratterebbe di raccontare le storie autentiche o inventate che ho raccolto lungo i sentieri che ho percorso negli ultimi dieci anni. Ce l’ho davanti agli occhi: è un libro che abbraccia diversi generi (saggio, libro di viaggio, reportage, raccolta di racconti) con l’intento di dar sostanza a una sorta di romanzo di formazione e di dar conto dell’educazione sentimentale che mi ha condotto nell’arco di un decennio ad affiancare all’identità di cinico punkfolkrocker suburbano quella di affaticabile, ma entusiasta, scarpinatore montano.
La struttura del racconto viene fuori in maniera incredibilmente veloce, come fosse stata già pronta lì ad attendere che qualcuno la scoprisse. Pochi giorni prima di natale viene a cena Sergio Di Gennaro, un fraterno amico, gli illustro a grandi linee il progetto e gli faccio leggere le poche pagine che ho già tirato giù e lui mi incoraggia:
– Scrivi questo Filo, scrivi questo, mi piace.
E allora “scrivo questo”. Mi viene da pensare che potrei infilarci dentro senza forzature anche quelle cose che non saprei come mettere nel calderone di Salgaria, tipo la storia del generale Gallina: protagonista di tutte le campagne coloniali italiane a partire dal 1911, conquistatore di Addis Abeba nel ’36, comandante del Corpo d’armata libico nel ’40, prigioniero degli inglesi in India fino al ’43 e morto a Orbassano (TO) nel ’45 vittima di una incursione aerea alleata.
Da quando è nata Miriam fumo meno di dieci sigarette la settimana (niente ipnosi o agopuntura, semplicemente ne ho meno voglia) ma a quella del dopo cena in compagnia di Sara raramente rinuncio. Così una sera, nel giardino con le infradito ai piedi e la giacca a vento ben chiusa le dico:
– Eppure mi dispiace abbandonare Salgaria.
– Perché dici “abbandonare”?
– Ma se scrivo Requiem per i miei scarponi…
– E non può scriverli entrambi?
– Seh, vabbé! Faccio fatica scriverne uno alla volta, figurati due.
– Ma quale ti piacerebbe di più scrivere, ora?
– Requiem mi ha entusiasmato da subito, hai visto, la scocca si è fatta da sé in quattro e quattro otto… ma pure Salgaria, secondo me può essere bello. Solo che non riesco proprio a scriverlo ‘sto romanzo definitivo sulla guerra d’Etiopia.
– E chi ha detto che deve essere definitivo?
Eh, chi lo ha detto?
C O N T I N U A
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[4] La versione integrale dell’articolo è contenuta ora in G. Bonomi, C. Gallo, Emilio Salgari, la macchina dei sogni, Rizzoli, 2011
[5] Pernarella allude a G. Arpino, R. Antonetto, Salgari, il padre degli eroi, Rizzoli, 1982. Poi ripubblicata nel 2010 da Viglongo.
[6] Si allude alla rivista “Raduno degli artisti di tutte le arti. Settimanale di battaglia dei Sindacati Autori e Scrittori, Artisti, Musicisti”, diretto da Giacomo Di Giacomo.
Gallo nei mesi successivi mi ha poi generosamente messo a conoscenza di un suo articolo, La primavera fascista di Emilio Salgari, in cui scrive: [il Raduno] avviò una strumentale campagna di riabilitazione del “Capitano” la cui triste vicenda veniva utilizzata per riformare la Società italiana degli Autori e Editori. “Il Raduno” mirava ad organizzare sindacalmente gli artisti e gli intellettuali ed impedire la cessione perpetua dei diritti d’autore. Sosteneva i giovani scrittori e voleva attribuire ai suoi aderenti un autorevole ruolo all’interno dell’organizzazione editoriale [..] . Un programma risoluto che mirava a tutelare gli organizzati e i non capaci a scapito della libertà d’impresa. Il “caso Salgari” , l’eventuale ricusazione dei contratti sottoscritti dal romanziere quand’era ancora in vita, avrebbero, dunque, dimostrato la fattibilità di questo ambizioso programma.