Le cose che non ho scritto [2]

Ecco la seconda puntata di Le cose che non ho scritto – Almanacco degli errori dell’inesperto romanziere. Nella puntata precedente ho raccontato un anno di inciampi letterari assortiti. Qui invece racconto di un capitombolo solo, ma lungo tre mesi (settembre – dicembre 2011). Si tratta di uno di quei voli da cui ti rialzi in fretta e, fra le lacrime e preoccupanti scricchiolii d’ossa, dici a tutti: «Non mi sono fatto niente, sono caduto di proposito, tranquilli, tutto a posto».

3. Diventare padri non è la fine del mondo

UraniaAd agosto io e la mia compagna ci siamo concessi dieci giorni di vacanza nel Sud della Francia. Chiacchiere appassionate, Tolkien, mare, ukulele, kayak, matite acquerellabili e lunghe passeggiate. Un vero toccasana, mi sentivo proprio rigenerato, pieno di energia e di ardimento. Solo che evitare di pensare a un problema, non sempre ti permette di risolverlo. Infatti, in barba alla bella vacanza, appena tornato a casa è bastata un’occhiata alla pila di libri sulla scrivania per farmi ripiombare nella paranoia dello scrittore senza libro da scrivere.

«Che devo farci con ‘sta trilogia salgariana? E se lasciassi perdere? Se provassi a sviluppare quegli spunti narrativi fantascientifici che da anni si vanno accumulando nel cassetto?»
Passa un giorno, poi ne passa un altro e un altro ancora e io sempre lì come un giradischi in fissa su un solco: Salgari nonsalgari, trilogia nontrilogia.

Poi a mezzo settembre, mi ha telefonato Salvatore, fratello minore di mia madre.

– Che stai facendo?
– Guido.
– Hai cinque minuti?
– Ce li ho.
– Ti vuoi fermare?
– Ma che è successo?
– Niente, mi sono ricordato una cosa importante che ho scoperto – Salvatore vive a Roma, ma in quei giorni è a Marsala. Lui e mia madre ci sono nati.
– Dimmi, ti ascolto.
– Sei sicuro di non volerti fermare?
– Appena trovo uno spiazzo accosto, tu comincia!
– Sicuro? – Salvatore gode nel far crescere negli altri attese insopportabili ai più.
– Sì, sono sicuro.
– Filippo, – mi dice solenne – nelle tue vene scorre sangue di San Pantaleo.
– Minchia!

Salvatore lascia un lungo silenzio, sa che ho capito.

whitakerSan Pantaleo è il nome dell’isola dello Stagnone di Marsala sulla quale sorgeva Mozia, insediamento fenicio che alla nascita di Cristo contava già almeno otto secoli. A inizio ‘900, Joseph Isaac Spadafora Whitaker, uno dei rampolli della dinastia inglese Ingham-Whitaker – gente che fece i soldoni con la produzione e la vendita del Marsala – acquistò l’isola e ne fece il suo privato giardino archeologico.
La voce popolare – non ho mai studiato abbastanza per  poterne confermare la veridicità – sostiene che gli enfiteuti di San Pantaleo erano tutt’altro che propensi alla cessione delle loro vigne e che per convincerli Whitaker fece ricorso a mezzi sporchi e sporchissimi.

Salvatore mi dice:
– Ho le prove. Mia nonna, cioè tua bisnonna, è nata a San Pantaleo, i suoi genitori avevano una casa e un pezzo di vigna sull’isola. Sarebbe fico se qualcuno raccontasse questa storia.
Ho capito dove vuole andare a parare.
– Il riccone inglese bastardo…
– … che fotte i contadini pantaleara…
– … gli paga la terra un pugno di noci…
– … e si costruisce il suo paradiso privato. Abbiamo preso contatto con l’Archivio Storico di Marsala, sono molto cortesi e mi hanno dato il nome di un professore che si è occupato della storia recente dell’isola.

Nei giorni in cui rimugino sull’idea, Sara, la mia compagna, mi comunica di essere incinta. Non sto qui a dilungarmi sul giubilo, i brindisi e gli occhi lucidi, ma tale e tanta felicità schiude l’uovo a un tarlo che comincia a rosicarsi il cervello.
«La creatura sbarcherà a maggio – mi dico – entro quella data devo aver tirato giù almeno la prima stesura del romanzo».
Comincio a lavorare febbrilmente, spinto dall’ansia di finire presto un’opera sulla quale non ho nemmeno iniziato a riflettere. Nel giro di una settimana ho già due griglie narrative. Una ripercorre le vicende di una coppia di giovani pupari marsalesi che nei primi anni del ‘900, in un minuscolo teatrino scalcinato, mette in cronaca le vicende della privatizzazione di San Pantaleo utilizzando pupi ispirati agli eroi salgariani; l’altra – che però non c’entra una beata mazza – prende le mosse da un’altra storia della mia famiglia, narra cioè le mirabolanti avventure di un antenato che, pare, a fine ‘700 facesse il pirata lungo le coste sicule.

Decido di concentrarmi sulla vicenda dei giovani pupari, e scrivo a ruota libera. Le pagine vengono fuori una via l’altra con estrema facilità, anche perché lavoro senza altra documentazione che non sia Un inglese all’opera dei pupi di Henry Festing Jones.
Improvvidamente comunico agli amici che sfrutto come lettori di prova che sto finalmente scrivendo e che oramai è fatta, a breve potranno leggere i primi capitoli de L’opra di Sandokan.
Per tutto ottobre e parte di novembre scrivo sereno. Poi per questioni di lavoro resto lontano dalle carte per diversi giorni consecutivi. Quando mi ricapitano in mano ci resto male. L’opra di Sandokan – fatta eccezione per l’incipit e due scene potenti che però devo ancora scrivere – mi fa letteralmente cacare.
Sono diverse le cose che stimolano la suddetta funzione fisiologica, ma l’aspetto più demoralizzante e che L’opra sembra in tutto e per tutto la copia sciatta de Lo Spleen di Mompracem, i dialoghi, le situazioni, tutto mi dice che il romanzo che sto scrivendo non tiene conto delle esperienze esperite e delle consapevolezze acquisite nel frattempo. La frase più vecchia non ha ancora trenta giorni, ma sembra provenga diretta da un buco nero aperto sul 2008.
Inoltre ho scritto senza leggere nulla, e si vede. La Sicilia dell’Opra è una Sicilia in costume folkloristico, oleografica. Anche Whitaker, mi accorgo, è una figura complessa e sfaccettata e meriterebbe maggior approfondimento. Son proprio scontento e demoralizzato.

Mentre fumo in giardino, dopo cena, dico a Sara:
– Di tutto quello che ho scritto nell’Opra non se ne può salvare manco un decimo. Nel frattempo siamo già a dicembre, ho perso tre mesi senza concludere niente.
– Non ci puoi lavorare su?
– Non so, sarebbe da riscrivere ex novo, ma prima dovrei fare tutto quel lavoro di documentazione che non ho ancora fatto. Impossibile finirlo in tempo.
– Finire che?
– Il romanzo.
– In tempo per cosa?
– Per la nascita della bimba.
– Tranquillo, appena nata preferirà leggere altre cose.
L’effetto secondario della paranoia dello scrittore senza libro da scrivere è una caduta verticale della capacità di recepire l’ironia. La guardo allocchito e dico:
– Non ho capito.
– La bimba nasce, sì: ma se hai le mani per cambiare pannolini, le hai anche per continuare a scrivere.

 

C O N T I N U A

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