Oggi era previsto che io partissi alla volta di Firenze per poter partecipare al Festival della letteratura sociale organizzato da Polveriera. Ero felice di esibirmi – il mio primo spettacolo dopo sette mesi di pausa forzata – ed ero felice di riabbracciare persone care che lo avrebbero attraversato.
In questi giorni sono stata avvisata che durante il festival ci sarebbero state delle azioni di disturbo per sanzionare una vicenda di violenza sessista agita da una persona che ha frequentato l’assemblea di Polveriera e di cui lo spazio non si sarebbe fatta carico.
Non entro nel merito della vicenda, conosco poco la realtà fiorentina e nelle ultime quarantotto ore ho sentito così tante versioni discordanti che non avrebbe alcun senso che mi mettessi a sentenziare. Mi preme, a caldo, sulla scorta di situazioni analoghe che ho visto accadere a Torino, fare una sola considerazione generale.
Dobbiamo partire dal presupposto che il patriarcato è sistemico e non è solo una cosa che fanno gli altri, fuori dai nostri spazi. Dobbiamo pensare al trans/femminismo come una pratica di critica e di azione in divenire che si oppone radicalmente al dominio e alle modalità patriarcali. Vi si oppone non per creare un altro dominio di segno contrario, vi si oppone per liberare gli esseri viventi dall’oppressione e dalle gabbie e immaginare e vivere altri tipi di relazioni.
Al centro della riflessione e dell’operato femminista ci deve essere la cura. Quello che ho visto accadere negli anni scorsi a Torino da questo punto di vista è disperante. La persona sopravvissuta alle molestie ha sempre dovuto abbandonare lo spazio e, in alcuni casi, la città. Questo copione deve essere necessariamente riscritto, nella storia che vogliamo vivere gli spazi di agibilità sessista, maschilista, machista, coloniale si estinguono.
La riflessione collettiva su questi temi mi fa vedere almeno due priorità. La prima: dobbiamo predisporre reti di protezione e di aiuto intorno alle persone che sopravvivono alle violenze, fare in modo che sappiano che non sono sole e possono parlarne e fare in modo che si sentano sicure e supportate. E, due, per scoraggiare il ripetersi degli eventi dobbiamo prenderci cura dei contesti in cui queste violenze sessiste prendono forma, mettere da parte le appartenenze e le parrocchie e agire contro il nemico comune, l’eterocispatriarcato.
Questo significa elaborare strumenti e percorsi di critica, riconoscimento e rifiuto della violenza sessista – con l’avvertenza che non possono essere univoci, eterni, assoluti, ma flessibili, adattabili a seconda di spazio/tempo/contesto – e poi metterli a disposizione di chi ne ha bisogno: cioè tutti, tutte, tuttu e tutt*.
Nel mio piccolo, per questa vicenda di Firenze, il miglior contributo che so immaginare è fare un passo indietro, lasciare che il tempo che avrebbe preso il mio spettacolo si possa trasformare in uno spazio di discussione su queste questioni. E quindi invito a leggere la mia assenza non solo come diserzione, ma come l’augurio di un confronto che ci renda tutt* più consapevoli.
Resto in ascolto.