Sono una lavoratrice precaria, bibliotecaria esternalizzata, presso l’Università degli Studi di Torino. Stamattina all’entrata del Campus Einaudi il varco è più stretto del consueto, ha tutto l’aspetto di un posto di blocco. Mi attende una lavoratrice esternalizzata di un’altra cooperativa che si occupa dei servizi di sorveglianza e portineria. Sembra imbarazzata.
– Buongiorno.
– Buongiorno.
Un silenzio troppo lungo. Lei deglutisce e chiede:
– Ha il green pass?
La seconda dose di vaccino l’ho fatta ieri, non ho ancora ricevuto il codice per scaricarlo. Le dico che però ho il certificato vaccinale che mi hanno rilasciato in ambulatorio.
– Non basta. Si entra solo con il green pass o con il tampone.
– >Ma se il ministero non mi manda il codice per scaricarlo…
La tizia chiama un collega al quale rispiego tutto. La conclusione è:
– Non può entrare.
– Senta, io sono una lavoratrice esternalizzata e non sono tenuta a mostrare un bel niente. In più sono pure vaccinata, mica è colpa mia se non ho il green pass.
– Noi abbiamo ricevuto queste disposizioni dall’università.
– Io entro lo stesso.
– Ah, vuole proprio entrare?
– Sì.
– Allora devo prendere le sue generalità.
A metà settembre avrò la terza udienza del processo per il mio cambio anagrafico. Nessuno mi garantisce che sarà l’ultima. Ho iniziato il mio percorso di transizione più di tre anni fa, ma ancora non mi è stato concesso di cambiare i documenti. Una situazione che già in tempi “normali” dà luogo ad outing continui. Adesso si aggiunge questa menata del green pass. Il tipo legge ad alta voce il nome maschile segnato sul mio certificato vaccinale e solo allora mi fa segno di entrare.
Viviamo in una società iperburocratizzata. A ogni varco ci vuole un lasciapassare. Entrano facilmente in possesso di questi salvacondotti i maschi bianchi, etero, cisgender, abbienti, normodotati, in salute, adulti e senza dubbi sulla legittimità a dettar legge del capitale, dello Stato, dell’eterocispatriarcato. Più ci si discosta da quel profilo, maggiori saranno le difficoltà a ottenere l’autorizzazione a muoversi e agire autonomamente.
Ora, quella di istituire il green pass è ovviamente una decisione di merda. Una classe dirigente che in diciotto mesi non è stata in grado di prendere un solo provvedimento nella direzione dell’ampliamento dell’assistenza sanitaria né della protezione delle fasce più deboli, copre le sue enormi responsabilità impedendo alle persone di andare a lavorare, studiare, viaggiare, frequentare i luoghi della cultura, dell’intrattenimento e della socialità. Gli ultimi due governi si sono distinti – la cosa purtroppo non sorprende – per il cinismo e lo zelo con i quali hanno continuato a fare gli interessi del grande capitale, di Confindustria, e seguitato ad alimentare la paranoia, a rendere capillare la cultura del controllo e a diffondere il virus della sbirraggine. La pandemia, per qualcuno, si è rivelata un grandissimo affare.
Ovviamente, il green pass non ci mette al sicuro da una nuova serrata autunnale. I provvedimenti che potrebbero scongiurare questa eventualità non sono nell’agenda del governo che però, nell’immagine mostrificata del No Vax, ha già individuato il capro espiatorio a cui addosserà la responsabilità del malcontento che inevitabilmente ingenereranno altre restrizioni. Il trucco è sempre quello di diminuire l’ampiezza del pollaio e aspettare che tra noi pennuti nani ci si ammazzi a beccate. Per inciso, mi fa male litigare con persone che lavorano in cooperativa, prendono cinque-sei euro l’ora, stanno lì a rendere esecutive ingiustizie decise altrove e a fare da parafulmine.
Allo stesso modo mi fanno male le limitazioni a cui sono sottoposta come lavoratrice dello spettacolo. Come genitore di una bimba che frequenta le elementari, mi fa male quello che (non) è stato fatto in tutto questo tempo per la scuola e il disinteresse feroce che è calato sul benessere psicofisico delle persone giovani; come bibliotecaria mi fanno male le pesanti limitazioni imposte a quelli che sono i centri culturali e aggregativi di base; come lavoratrice dell’università mi fa male l’enorme quantità di balzelli e supplizi ai quali sono stat* sottopost* gli/le studenti; mi fa male che le code per accedere ai servizi sanitari dedicati alla persone trans si siano ulteriormente allungati (a Torino ormai ci vuole un anno per un primo appuntamento); mi fa male che l’armamentario retorico e securitario della pandemia venga sdoganato per reprimere i movimenti. Un sacco di cose mi fanno male e solo una minima parte sono qui elencate. Pazienza, queste righe le ho scritte di pancia nella mia unica mezz’ora di pausa. Non ci sono grandi analisi politiche, c’è solo lo sdegno e lo schifo. Come diceva quel tale, però, preferirei riservare il pessimismo a momenti migliori. C’è un sacco di lavoro da fare. Continuiamo a metterci la faccia, la testa, le braccia e il cuore. A sarà dura.
Grazie della testimonianza, ahimé ricca e che offre [troppi] spunti di aggancio e auguro solidarietà.
Esprimo la mia vicinanza e solidarietà 🌻
grazie, condivido fino all’ultima parola. Il virus della sbirraggine è peggio del Covid e uccide e intossica relazioni umane e spazi di socialità e di piacere.
un abbraccio