Ho cominciato a desiderare di stare in una band quando avevo quindici anni. Sì, avevo già iniziato a scrivere testi per canzoni, ma la fascinazione che mi spinse a procurarmi un prontuario per gli accordi, spolverare la vecchia chitarra classica recuperata in uno sgombero casalingo e cominciare a scassare le gonadi alle miei amicx affinché cominciassimo a suonare insieme non era solo musicale. Complice il discutibile film di Oliver Stone, mi ero presa una cotta adolescenziale per i Doors. La cosa si era aggravata quando in un bootleg trovato in una fossa comune di musicassette special price avevo scovato questa lunga suite intitolata The celebration of the lizard. Quel miscuglio di poesia, teatro e canzone mi aveva incendiata a dovere.
Riempivo quaderni di ballate, monologhi, copioni e sceneggiature e sentivo che la destinazione finale di quei testi non era la carta stampata, ma il palco: parola viva e sonante pronunciata, declamata, recitata, urlata, cantata davanti a un pubblico. Nei miei appunti su quelle messinscena figurava immancabilmente una band dal vivo. All’inizio partì sghemba: furono solo canzoni e io stavo zitta. L’occasione venne nel 1996, con la mia terza band, i Disperazione. Fui finalmente dispensata dal suonare la chitarra che non era cosa mia, mi piazzai davanti al microfono e, oltre a sbraitarci dentro, iniziai a sperimentare dei monologhetti su pedale che si incistavano nel corpo delle canzoni. La faccio breve: le sperimentazioni poi sono proseguite con la Brigata Torquemada, le Filastrocche di legno, la Piccola orchestra dei sentieri e ancora da solista I riferimenti e gli orizzonti nel frattempo si sono allargati molto: da Brecht & Weill a Petrolini e Viviani, da certe cose dei Crass a certe cose di Tricky, da Peppe e Concetta Barra a Leo De Berardinis, dalle cantastorie siciliani alla, per me, recentissima scoperta di Kae Tempest. Di giorno in giorno, di ascolto in ascolto, di palco in palco ho continuato ad assemblare parole, suoni, ritmi e melodie con l’intento primo di narrare. Tre anni fa sono poi arrivata a dare un nome al mio modo di esplorare il confine fra teatro, canzone e narrazione: ho cominciato a definirmi punkastorie.
Detto questo, mi pare possa suonare ovvio che l’iniziativa di Bhutan Clan e Wu Ming di fondare uno spazio – Melologos, appunto – in cui ragionare di fonologia narrativa (della commistione fra parole, affabulazione e musica) di come accoglierla e produrla risvegli il mio entusiasmo. Aprire un posto del genere, metterci dentro le macchine necessarie, significa mettere in mano a una realtà compagna i mezzi di produzione per continuare a resistere e produrre e diffondere cultura altra. Io ho già versato il mio contributo, ti va anche a te di dare una mano?
In quasi tre decenni di palco. parole e musica ho sbattuto la faccia su tanti aspetti della questione e volente o nolente ho imparato qualcosa. La conoscenza quando è condivisa e laboratoriale acquista nuove direzioni e nuovi versi, smette di essere univoca e diventa plurale, polivoca, una delle infinite sedi informali della multiversità cosmica in cui tuttx possiamo divenire – senza laurea e test d’ingresso – discenti e insegnanti. Questo per dire che sono già stata precettata per tenere a Melologos un momento di confronto e sperimentazione sull’arte dellx punkastorie. Ho accettato senza esitazioni: so già che ho tutto da imparare e gioisco a condividere.