Rifiuto, poiché non è nel teatro, che un regista decida che cosa quelle pagine significhino, e lo decida nella capa soja, e cioè non scopra attraverso gli attori in atto, cioè attraverso il gioco degli attori, non cos’è la verità di un testo, che non esiste, ma cos’è la realtà di un testo, giocato, played, in quel momento.
Lo ha detto nel 1997 l’attore e regista Carlo Cecchi in un’intervista curata da Piero Ferrero. Qui Cecchi polemizza con quel teatro di regia che decide a priori cosa andrà a scoprire in un testo, apparecchia tutti i codici dello spettacolo di conseguenza e soffoca il gioco e la relazione che si sviluppa sul palco fra chi recita, lx personaggy e il pubblico convenuto. Fra le righe viene fuori che per Cecchi il teatro si gioca e il testo drammatico è il regolamento che ci diamo. Giocare il testo è più importante di analizzarlo. La realtà ultima dello scopone scientifico non è il suo regolamento, ma la mano, la partita, l’interazione fra chi gioca e le carte che escono.
Ho letto queste parole di Cecchi nel 1999 e da allora per me sono parte integrante dell’etica e dell’attitudine con la quale approccio la scena. Tuttavia io sono anche autrice dei miei testi. Per me si pone anche la questione della scrittura delle regole del gioco. Come tenere quella stessa attitudine anche nella stesura del copione?
Da oltre un decennio sperimento la “prova aperta”. Cosa intendo?
A grandi linee – quando decido che apro la cartellina di uno spettacolo nuovo – so cosa voglio portare in scena, di che temi e situazioni voglio ragionare. Per me però è importante evitare che il testo che giocherò di lì in avanti per decine di sere, davanti a persone diverse e nei contesti più disparati, suoni scritto a tavolino, concluso, morto. Mi sembra invece importante che fin dall’inizio sia aperto alle suggestioni della sala e del palco. E quindi, i miei spettacoli sono pochissimo scritti, sono più facilmente trascritti: frutto di ripetute e molteplici improvvisazioni a soggetto, da sola e in compagnia. Di solito alla prima prova aperta mi presento con brandelli delle letture che mi hanno colpito, ipotesi drammaturgiche per legarle, qualche sketch e qualche abbozzo di canzone. Una cosa a metà strada fra conferenza, prova, laboratorio. Ci vuole molta pazienza, temo, per assistere a momenti del genere perché non garantisco né di interessare, né di divertire, tanto meno intrattenere.
Di solito, mi presento a queste prime uscite con molta ansia e ne esco pesta e felice. Pesta perché detesto annoiare e nel tentativo di evitarlo mi agito e sbatacchio come il battente della grancassa dei Napalm Death; felice perché è lì, durante la prima verifica in scena dei materiali, sotto il peso degli sguardi e dei respiri di chi assiste, che davvero comincio a capire in che modo voglio approcciare i temi che mi sono scelta. A quel punto, di solito, inizia a chiarirsi una situazione drammaturgica che orienta letture e intuizioni. Nel giro di poche uscite comincia a delinearsi quindi un testo giocabile, adattabile, emendabile, vivo.
Questo giovedì 26 maggio (al Molo di Lilith, a Torino) è proprio una di quelle sere in cui spalanco le porte dell’officina, verifico in scena materiali e riflessioni, do la prima prova aperta di uno spettacolo. Come da programma, è tutto abbastanza informe e abbozzato. Il titolo – provvisorio – della performance è Gertrude contro tutti. Litania di urlacci e requisitorie cantate contro il progetto di dio, lo stato di natura, la buona fede di Amleto e altre cose date per scontate.
Gertrude è ovviamente la regina di Danimarca e, attraverso i suoi occhi, prendo la mira contro l’essenzialismo: progenitore di ogni binarismo, sessismo, primitivismo, brutale scientismo, vacuo spiritualismo newage, bellicismo, fascismo. Le esistenze, le mutazioni, le genealogie e le relazioni sono la realtà in cui viviamo. Con le essenze, gli “è sempre stato così”, gli imperativi, le eredità indefettibili nemmeno il culo ci possiamo pulire.
Ora, come parlare di questi temi attraverso Gertrude di Danimarca spero di scoprirlo davvero giovedì sera in scena. Per ora so solo che proporrò letture, chiacchiere, canzoni e un paio di sketch che ancora devo scrivere. Se stiamo ai miei spettacoli più recenti, quelli post coming out per intenderci, mi sento in una situazione più simile a quando portai per la prima volta in scena La punk spiegata alla nonna che alle prime di Mostre & Fiere e Il decoro illustrato. Anche questa volta in ballo c’è qualcosa di più che un testo, provo anche a reinventarmi come autrice e come performer. Vedremo.
In ogni caso, questa – assembleare e di verifica – mi sembra la più onesta forma di crowdfunding che so proporre. Grazie di cuore e in anticipo a chi ci sarà.