Un tentativo necessario. Appunti sintetici sulla chiusura della collana Quintotipo e sulle forme della riflessione femminista scritta

Questa persona amica ha voluto darmi prova che la sua è stata davvero una lettura immersiva

Quintotipo, la collana di UNO (1), oggetti narrativi non identificati, della casa editrice Alegre, ha chiuso i battenti nel maggio scorso. Oggi, nel decennale della prima uscita, Wu Ming 1 – che l’ha ideata e, insieme a Pietro De Vivo, diretta – ne traccia un bilancio.
In quella schiera di narrazioni sghembe in cui Storia e storie osano la via del molteplice anche io ho lasciato tracce. A fine 2021 la collana ha ospitato il mio Senza titolo di viaggio. Storie e canzoni dal margine dei generi e, nel maggio 2023, tre anni di lavoro a tre teste tre cuori tre coppie di mani ha prodotto Se vi va bene bene se no seghe, tentacolare biografia dialettica di Valerio Minnella.
Oggi, fra le righe delle valutazioni di chiusura, Wu Ming 1 stila una selezione di testi che, anche a distanza di anni dalla pubblicazione, rimangono inequivocabilmente UNO . Fra questi anche Senza titolo di viaggio. Colgo l’occasione per mettere giù pochi appunti che mi riprometto di ampliare non appena ne avrò tempo e forze.

Sono completamente d’accordo: al di là dei suoi limiti, veri e supposti, Senza titolo di viaggio merita di stare nella rosa di opere che scelgono la contaminazione di tecniche e registri per raccontare con ogni mezzo necessario(2). Anche se un po’ di pancia, programmaticamente scrissi quel libro in quella maniera così ibrida come unica strategia possibile, mi pareva, per tenere insieme la complessità di ciò che volevo cantare.
Il mio percorso politico era sorto in ambito No TAV e, dopo decenni sotto copertura, dopo il mio coming out, il tentativo di sopravvivere in una società tanto inospitale per le persone trans, insidiate sia dal vecchio patriarcato reazionario che da quello più recente, liberal e pietistico, mi aveva condotta a incontrare efar parte di gruppi e collettivi che producevano pensiero e elaboravano azione femminista(3). Un passo più in là, ho sentito che dovevo e volevo far incontrare dentro e fuori di me questi ambiti di azione. L’attivismo ambientale e quello femminista condividono il fine (l’autodeterminazione: corpi e territori ma pur sempre organismi) e i mezzi: la messa in discussione radicale delle relazioni gerarchiche: chi decide per chi? a che titolo? per difendere quali interessi? Mi sentivo – e tutt’ora mi sento – scissa. Innumerevoli le persone che li attraversano entrambi, ma i due ambiti di azione faticavano e, ahinoi, ancora faticano a parlarsi. Le ragioni sono molteplici: persistenze patriarcali, diffidenze, rigidità, incomprensioni, rendite di posizione da tutelare. La questione è importantissima e meriterebbe di essere affrontata sul serio, ora e ancora, ma non è questa la sede, qui mi limito a parlare dell’operazione che mi prefiggevo con Senza titolo di viaggio. Volevo incitare a una sempre maggiore integrazione e commistione delle lotte: potevo limitarmi a parlare con una sola voce? No. E quindi ho disposto tutte le attrezzature e i reagenti del mio laboratorio per far precipitare una forma letteraria che avesse le medesime polarità del contenuto.

Come è andata? Partiamo dal mero dato numerico. Le vendite non sono state esaltanti: a oggi quel titolo non ha varcato la soglia delle duemila copie vendute. Presenza nella conversazione pubblica? Onestamente, poche aree del movimento No TAV si accorsero di quell’uscita e – al netto della mia presenza pressoché costante nell’area dibattiti di Alta Felicità – solo saltuariamente quel tipo di riflessione è pubblicamente ri-affiorata.
E in ambito femminista? Attestati di stima, anche recentissimi, presentazioni fiume che diventavano autocoscienze, ma il libro – temo non solo per la sua mole, oltre 400 pagine contro poco più di 60 – è molto meno citato e discusso e il suo immaginario ha lasciato tracce decisamente più leggere di La mostruositrans. Per un’alleanza transfemminista fra le creature mostre (Eris, 2020).

Ora, mi preme specificare che nei mesi in cui lavoravo a Senza titolo di viaggio le mie riflessioni sulla pubblicistica femminista erano ancora molto acerbe. E, soprattutto quando si scrive di pancia, i frutti non maturi sono deleteri. Morale: mi sono buscata una gran dispepsia. Un tormento che mi ha fatto compagnia a lungo e ha cominciato a sciogliersi solo la primavera scorsa. A lungo ho avuto il sospetto di aver scritto un libro sbagliato.
Senza titolo di viaggio è sicuramente un’opera queer, nel senso che sfugge alle gabbie dei generi letterari e non binaria, nel senso che cerca di superare le polarizzazioni. Probabilmente se lo avessi meditato qualche settimana in più sarebbe venuto meglio ma, per me, non è sbagliato. Mi ci ritrovo ancora tutta. Il lungo malessere in cui sono stata era dovuto alla scarsa ricezione e al fatto che non mi fossi davvero messa a meditare sulle forme in cui le tematiche di genere sono discusse e divulgate e narrate in questo frangente di secolo.
Oggi sono convinta che Senza titolo di viaggio è soprattutto un oggetto narrativo che non è stato identificato.

Viviamo in un paese in cui le persone che leggono sono poche e, in prevalenza, donne. L’editoria mainstream quindi, da qualche anno, prova a stuzzicare gli appetiti di quella nicchia di mercato sfornando libri più o meno femministi(4). La gran parte di questi testi, quando non sono romanzi e testi accademici, si presentano come memoir o manualetti. Vedo rischi in entrambe le forme.
In una società come questa, in cui l’individualismo si erge a ideologia dominante, per riuscire a scrivere racconti autobiografici che sappiano tenere uno sguardo e una dimensione collettiva ci vogliono una grande forza di volontà, il supporto di una comunità con cui si discute e la complicità di una casa editrice che ha un progetto politico che contrasta quel sistema di valori in cui l’individualismo è colonna portante.
Per quanto riguarda i manualetti femministi, nella maggior parte dei casi, mi fanno paura. Lo stesso terrore di quando vedo usare grammatica e dizionario come una clava per annichilire sul nascere ogni evoluzione creativa, ogni uso locale, ogni espressione che svela oppressioni o prova a trasformare relazioni. Le società umane, gli ecosistemi di esseri viventi, non sono tostapani, non ci possono essere istruzioni e modi di funzionamento univoci. E probabilmente esiste molteplicità anche nel regno delle macchine elettriche per la cottura.
Rispetto a queste due forme letterarie prevalenti, Senza titolo di viaggio si piazza su un’orbita assai ellittica. Sono frequenti i passaggi in cui lo travesto da memoir, ma gli episodi sono sempre incastonati in un ragionamento e la quantità di materiali stili e presenze eterogenee è talmente debordante che il travestimento dura poco. Quanto alle prescrizioni: in una sola coppia di pagine ricorro a modalità da manualetto, ma senza scolpire tavole della legge, limitandomi ad appuntare tre indicazioni su volatili post-it.

L’industria editoriale e il moloch della distribuzione, per quello che ne capisco, viaggiano per lo più a compartimenti stagni e per assunti inverificati. Nelle librerie di catena, nei pochi giorni in cui lo si potè trovare,  Senza titolo di viaggio, grazie al sottotitolo Storie e canzoni dal margine dei generi, trovò posto nel settore musica, fra i Ramones e i Sottotono. Giuro. Anche essere inserito in una collana non esplicitamente femminista di certo non gli ha giovato. Così come può essergli stato di impedimento una molteplicità formale, così distante dall’orizzonte d’attesa della lettrice supposta nelle redazioni delle riviste che ancora, qualche volta recensiscono davvero. Tutti fattori che hanno reso più difficile la sua identificazione come libro femminista.

Alla domanda “oggi lo riscriveresti tale e quale?” non posso rispondere. Ciò che scrivo oggi non può prescindere da ciò che ho già scritto e vissuto ieri. Negli universi paralleli in cui nel 2021 non ho scritto Senza titolo di viaggio sospetto di essere una persona molto diversa da quella che sono qui e ora.
Posso dire per certo che questa Filo Sottile del 2024 nel corso della primavera-estate scorsa, in conseguenza di un travaso di bile, che però le ha messo un po’ a posto la panza, ha scritto due articoli (qui e qui) le cui riflessioni si sono evolute in un progetto di riedizione ampliata di La mostruositrans(5). Di nuovo ho battuto sentieri che mi tenessero alla larga da memoir e manualetti. Posso anche dire che questa Filo Sottile attualmente lavora in una delle pieghe narrative di Se vi va bene bene se no seghe, e intende dare alle stampe a un altro oggetto narrativo non identificato che – per ora – si chiama In un canto. Spettri e lotte di Sicilia.
In definitiva, essere stata parte di questo tentativo non solo non mi offende, ma mi rende orgogliosa e, nel bene e nel male, struttura ciò che ancora è vitale e combattivo in me. Sono grata di esserci stata e per ciò che ho imparato. Grazie.


  1.  Acronimo di Unidentified Narrative Object e, ovviamente, calco di UFO.
  2. Dove – precisa Wu Ming 1 – “«Necessario» esclude «superfluo» e «fine a se stesso». Necessario è ogni mezzo che consenta alla narrazione di rimanere tale, senza sbordare e diventare un mero cut-up o una poltiglia di sintagmi. L’ibridazione dev’essere al servizio della storia che si vuole raccontare, deve porsi come obiettivi l’efficacia, l’empatia, la condivisione, e illuminare l’esemplarità di una o più vicende umane”. Citazione tratta da qui.
  3. Sto di nuovo entrando in un periodo in cui non ho bisogno di esplicitare il prefisso “trans” davanti a “femminsta”. Se intendiamo per femminismo l’insieme di corpi, saperi critici e azioni che usa strumenti di genere per indagare e opporsi alle sperequazioni di classe e strumenti di classe per analizzare e contrastare le oppressioni di genere, possiamo davvero chiamare femministe tutte quelle frange che si riconoscono nell’agenda transnegativa dei governi reazionari e/o ultraliberisti di questa montante nube venefica nera?
  4. Nella maggior parte dei casi si tratta di testi scritti da persone bianche e borghesi. Siccome non credo possa esistere una azione/riflessione compiutamente femminista senza una lettura di classe e una visione antirazzista, propongo di chiamare questo genere di testi: “letteratura quote rosa”.
  5. La mostruositrans. Per un’alleanza transfemminista fra le creature mostre è praticamente esaurita. Questa riedizione che ne raddoppia il volume è ferma in cantiere. Confido che troverà presto un nuovo editore e che tornerà a circolare.

 

Questa voce è stata pubblicata in Considerazioni, Prese di posizione e contrassegnata con , , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *