Le cose che non ho scritto [1]

Il sottotitolo di questo post potrebbe essere:

Almanacco degli errori dell’inesperto romanziere

Si tratta di un lungo pezzo che ho cominciato a scrivere negli ultimi giorni di febbraio e che ho deciso di pubblicare in quattro puntate.
L’ho scritto per due ragioni: la prima è inaugurare questo nuovo blog con una mozione di sincerità riguardo al passato e un pizzico – molto limitato, eh, ché i tempi son bui – di ottimismo per il futuro.
La seconda ragione è che periodicamente bisogna sgombrare il banco di lavoro e far pulizia in laboratorio. Scrivere queste note mi è servito a chiarire il percorso di questi due anni, gli inciampi, le cadute e il corollario di consapevolezze acquisite.
Magari è buono anche per voi.

La prima puntata prende in esame il periodo che va da settembre 2010 al settembre 2011

1. Tremal-Naik ed io infognati nelle Sunderbunds

tigre2

Nella nota introduttiva a Lo Spleen di Mompracem c’è scritto:

E in effetti questo Spleen di Mompracem, ovvero Yanez non ci sta! è il primo nato di una possibile trilogia di romanzi di argomento salgariano: gli altri due, salvo ripensamenti, si intitoleranno La prigione nelle Sunderbunds, ovvero Fuggi Tremal-Naik, fuggi! e Il miracolo di Sarawak, ovvero le intuizioni del dottor Sandokan. Se mai riuscissi a vedere la fine di questo progetto, sogno che la somma dei tre romanzi prenda questo nome: Tre tigri contro tre tigri, ovvero le apocrife avventure di Yanez, Tremal-Naik e Sandokan.

Licenziavo l’ultima revisione di quella nota a dicembre 2010, senza differenze sostanziali dalla versione che ne avevo scritto nel 2008, quando pensavo di scrivere tre racconti abbastanza lunghi e non tre romanzi abbastanza brevi.

Fumiko Kaneko

Fumiko Kaneko

Lo Spleen di Mompracem sarebbe uscito nel maggio successivo. In quei giorni, ero assorto nel lavoro preliminare alla stesura de La prigione delle Sunderbunds. Ci sudavo su da mesi. Immaginavo per Tremal-Naik una vera e propria discesa agli inferi, una catabasi fra demoni ctoni, divinità perdute, città sotterranee, rettiliani e ufo nazisti. Avevo come nume tutelare la madre delle catabasi comiche, Le Rane di Aristofane. Studiavo in parallelo astronomia hindu e mitologia greca, i deliri complottisti riguardo alla Terra cava e le memorie di prigionia di Fumiko Kaneko.

A giugno mi sembrava di capirci qualcosa: dai miei appunti cominciava ad affiorare un’organizzazione narrativa possibile per tutto il materiale che avevo raccolto e selezionato. Tremal-Naik, prigioniero degli inglesi sul delta del Gange, nel tentativo di fuggire scava un tunnel che lo catapulta in un carnevale di incontri problematici, ne esce dopo una settimana, giusto in tempo per salire a bordo della nave galera che lo deporterà sull’isola di Norfolk[1].
Il titolo di lavorazione cambiava in continuazione, le opzioni che mi stuzzicavano di più erano: Imprigionato nelle Sunderbunds ovvero Tremal-Naik cerca l’uscita e L’inferno delle Sunderbunds ovvero Tremal-Naik ci resta sotto. Tutto sembrava procedere bene, ero in botta: dieci pagine di incipit e centinaia in appunti e schedature, la mia scrivania e il mio comodino strabordavano di libri e foglietti.

Faria

Una sera fumando la sigaretta della staffa nel giardino condominiale di casa mia, mi son messo a scorrere su e giù la scaletta del romanzo e mi son chiesto: ma questa roba assomiglia lontanamente a una storia? Due sigarette dopo lo sapevo, non era una storia, ma un’accozzaglia di episodi. Alcuni molto divertenti credo, uno, quello della morte di Faria – sì, perché nel mio romanzo Tremal-Naik avrebbe incontrato il Faria di Dumas – addirittura mi commuoveva fino alle lacrime, ma il risultato complessivo, la somma di tutte quelle scene non era una storia che stesse in piedi. Avrei potuto insistere, chi lo sa? Non è da escludersi che lavorandoci ancora sarei riuscito a trasformare una serie di strisce in un romanzo compiuto, il fatto è che non ne ero affatto sicuro.

Oggi, col senno di poi, sono abbastanza convinto che il problema risiedesse nel personaggio di Tremal-Naik, se lo avessi costruito più solidamente avrebbe retto anche una struttura frammentaria, Salgari docet.

Comunque una sera con un po’ di sufficienza ho detto a Sara, la mia compagna: «Che fretta c’è? Nessuno mi insegue, posso scrivere un altro romanzo se questo non mi riesce. E poi il lavoro di questi mesi non è perso, ho imparato delle cose che mi faciliteranno nella ricerca per l’altro. Ora mi prendo una settimana di decompressione, mi leggo una cazzatona qualsiasi per svagarmi e poi ricomincio daccapo».

 

2. La trilogia che non c’è

Kuching, l’antica Sarawak

Nei Pirati della Malesia, forse il romanzo più bello di Salgari[2], c’è una scena che mi ha impressionato fin dalla prima lettura: quella della guarigione di Ada. La banda di Sandokan, dopo essere riuscita a far evadere Tremal-Naik dalla prigione di Sarawak. si è trincerata in un fortino abbandonato. Tremal-Naik però può godere solo in parte della libertà riconquistata, Ada, la sua fidanzata, è in uno stato di alterazione permanente, spazia dalla catatonia alle allucinazioni ossessive sui thug, e non lo riconosce più. Sandokan quindi escogita il mezzo per far rinsavire la ragazza. Ecco estremamente sintetizzata la scena[3]:

 

[Sandokan] Prese per mano i due amici e li condusse nell’interno di una vastissima capanna che occupava quasi l’intero recinto del forte. […]
L’ampia sala, in poche ore, era stata trasformata, per opera di Sandokan, di Kammamuri e dei pirati, in un’orribile caverna che a Tremal-Naik ricordava, in parte, il tempio dei thugs indiani, dove il truce Suyodhana aveva compiuto la sua spaventevole vendetta. […]
– Io credo che solamente una straordinaria impressione possa far riacquistare la ragione a Ada.
– Anch’io sono del tuo parere, Sandokan – disse Yanez, – e comprendo il tuo piano. Tu vuoi ripetere la scena che accadde nella pagoda dei thugs quando Tremal-Naik si presentò a Suyodhana.
– Sì, Yanez, è proprio così. Io sarò il capo dei thugs e ripeterò le parole pronunciate dal terribile uomo in quella notte fatale.
– E i thugs? – chiese Tremal-Naik.
– I thugs saranno i miei uomini – disse Sandokan. – Sono stati istruiti da Kammamuri. […]
– Yanez – disse allora Sandokan, – ti affido una parte importante.
– Che cosa devo fare?
– Tu che sei un bianco, devi rappresentare il padre di Ada. […]
– Fidati di me, fratello. Ognuno al suo posto. […]

Ada Corishant in una illustrazione di G. Gamba

Ada in una illustrazione di G. Gamba

[La] vergine della pagoda entrò sorretta da due dayachi.
– Avanzati, vergine della pagoda – disse Sandokan con voce grave, – Suyodhana te lo comanda.
A quel nome di Suyodhana, la pazza si era arrestata, liberandosi dalle braccia dei due pirati. […]
– Kalì – mormorò con un accento nel quale si sentiva una vibrazione di terrore. – I thugs…
Si avanzò di alcuni passi continuando a volgere lo sguardo ora su Sandokan, ora sui pirati, ora sulla mostruosa divinità dei thugs, poi si passò due o tre volte la mano sulla fronte e parve che facesse un supremo sforzo per richiamare alla memoria una qualche orribile scena.
D’improvviso Tremal-Naik irruppe nella pagoda e le si slanciò incontro gridando:
– Ada!… […]
Ada era rimasta immobile. Ad un tratto trasalì, poi si curvò innanzi, come se cercasse di raccogliere il rumore di una nuova scarica o qualche altra voce.
Sandokan […] con voce tonante si mise a gridare, come aveva gridato il feroce Suyodhana:
– Andate!… Ci rivedremo nella jungla!…
Aveva appena pronunciate quelle parole che un urlo acutissimo irrompeva dalle labbra della pazza.
Fece un passo innanzi col viso sconvolto, le braccia alzate, barcollò, girò su se stessa e cadde fra le braccia di Yanez.
– Morta!… morta!… – urlò Tremal-Naik con accento disperato.
– No – disse Sandokan. – Ella è salva!

 

Dal 2008 giravo intorno a questa scena. Da principio mi colpiva il fatto che nel 1896 – lo stesso anno in cui Freud utilizza per la prima volta in un suo scritto la parola psicoanalisi – a Salgari fosse venuta in mente una cura omeopatica per le nevrosi post traumatiche. Mi dicevo: qui ci sarebbe da fare uno studio di storia delle idee, ne verrà fuori qualcosa di sensazionale. Sensazionale, forse davvero, ma sinceramente non ci vedevo nessuno sviluppo narrativo interessante, niente che io sapessi dire o raccontare.

Solo quando, finita la settimana di decompressione, mi decisi a cominciare a lavorare a Il miracolo del Borneo intuì che quell’idea a Salgari più che uno “studio psicologico”, l’aveva suggerita la pratica teatrale. Salgari a Verona aveva recitato in diverse filodrammatiche ed era stato recensore teatrale per “La Nuova Arena”, sapeva delle cose sulla capacità catartica del teatro. La cosa mi rasserenò non poco, tirare fuori un romanzo da uno spunto teatrale? Proprio una roba tagliata su misura per me.

Di nuovo giù a capofitto a studiare. Mi appassionai agli iban, i famigerati tagliatori di teste del Borneo, quelli che Salgari chiamava dayachi. Rimasi folgorato dal pantun, una forma classica della poesia malese, una via di mezzo fra lo stornello e l’haiku, e provai a orientarmi nella dolorosa storia coloniale del Sud-est asiatico.

Stan LaurenOgni tanto tiravo su la testa dalle carte e ci davo una grattata con l’espressione di Stanlio quando è perplesso. Dagli appunti che si andavano accumulando non emergeva nulla che somigliasse a una storia, solo episodi isolati e in questo caso – a parte una scena molto potente in cui i pirati assistono a uno spettacolo di ombre giavanesi dato da due di loro – tutti piuttosto fiappi. Solo il personaggio di Ada Corishant mi dava fiducia nel progetto, lo sentivo crescere, delinearsi, acquisire forza e autonomia. Nel mio romanzo non sarebbe stata solo la fidanzata di qualcuno, ma il vero motore della vicenda. Decisi anche di cambiare il titolo al progetto in La ragazza chiamata No, sfruttando il fatto che sia in malese che in indonesiano ada-ada è un’espressione che si usa per dire “no” o “non c’è”. Eppure, le pagine che scrivevo non mi convincevano, mi suonavano false, artefatte, come se si scrivessi di cose che non mi riguardassero. Non ero contento per niente.

liberaRepubblica

Maggio 2011, una delle casette sugli alberi del presidio NoTav della Maddalena, foto di Luca Perino

Poi ci furono altri pensieri. Il 25 maggio a mezzanotte festeggiavo il mio compleanno in quella che di lì a poche ore sarebbe stata battezzata Libera Repubblica della Maddalena e un mese dopo fu proprio la rabbia suscitata dallo sgombero di quel luogo e di quell’esperienza a pompare ancora per breve tempo un po’ di linfa nelle vene di un progetto a cui non mi ero mai veramente appassionato. Nei primi giorni di luglio, infatti, mi pareva di poter ravvisare una forte analogia fra gli occupanti No Tav e i tigrotti di Mompracem inchiodati sulle coste del Borneo senza nave e incalzati da James Brooke. Scrissi le bozze di due belle assemblee del consiglio dei pirati e poi stop. Persi ancora due settimane alla ricerca dell’impossibile accrocchio allegorico, poi una sera cenando in giardino, ho detto a Sara:

– Sai che c’è? Manco questo romanzo lo riesco a scrivere. Fanculo.
– Non ti incaponire – mi ha detto lei – ma aspetta ad arrenderti, non manca molto alle vacanze, vedrai che ti si chiariranno le idee.
– Facciamo così, non ci penso fino a settembre, ne approfitto per rileggermi Il Signore degli Anelli e poi decido che cosa fare.

Quando poi me ne sono andato a letto, ho visto come in sogno un Supertele bucato che si allontanava nelle acque torbide e tumultuose di un torrente, quel pallone era la mia trilogia salgariana.

Il pallone giapponese trascinato in Alaska dallo tsunami

Il pallone che lo tsunami del 2011 ha condotto per mari impervi dal Giappone alle coste dell’Alaska

C O N T I N U A

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[1] Cfr. con il racconto di Kammamuri nel quarto capitolo de I Pirati della Malesia [PDF]

[2] Valerio Evangelisti è dello stesso parere, vedi qui.

[3] Qui l’intera scena.

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