Che fare il primo maggio?

1. Non lo faccio più

1 maggio 2019, “La punk” va in scena ai giardini reali, Torino. Foto di Andrea Sebastian

Oh regà, io ci sono andata sotto. Nei giorni successivi a Pesci rossi, mentre registravo contributi video che sarebbero andati altrove, mi arrivavano messaggi che mi chiedevano se mi sarei esibita ancora in streaming. No, ho risposto di no. La sola idea mi metteva addosso un panico che nessun uditorio in carne e ossa mi ha mai messo.

Seguo quotidianamente la didattica a distanza insieme a mia figlia, ho fatto assemblee politiche in videoconferenza, vedo il mio nipotino di quattro mesi solo in videochiamata, gli abbracci dei miei fratelli, delle mie sorelle, sibling, non lasciano sensazioni sulla pelle, ma solo scambio di dati e frustrazioni. Esibirmi senza vedere i volti, senza udire i respiri, senza chiacchiere né prima né dopo non è cosa.

Ma non si tratta solo di una tutela della mia salute mentale, sono convinta che tutte queste protesi informatiche e succedanei tecnologici non facciano altro che ritardare il momento in cui ci riprenderemo lo spazio pubblico. E quindi, di nuovo, no. E anzi mi offro per esibizioni live in presenza, ma ci arriviamo alla fine.

2. Che fare?

Continuo a chiedermi “che fare?”
Perché il punto non è più (se mai lo è stato) il covid-19. Il punto è che qui si è imposto il frame della guerra al virus. E se fai la guerra schieri l’esercito, i droni, gli elicotteri, imponi il coprifuoco, alzi le trincee e il filo spinato, chi è con te è un patriota e chi alza anche solo le sopracciglia è un traditore, un disertore e come tale va trattato. Sì, sto usando il maschile, perché le donne in questo quadro fanno le crocerossine, oppure a casa ad accudire i figli. Le persone non-maschio e non-femmina? Sciò, abbiamo altro a cui pensare.

La metafora che ci è stata imposta fa discendere una serie di comportamenti precisi.
Se la situazione è questa (e a me pare proprio così) una prima risposta ce l’ho alla domanda “che facciamo?”

Impegnamoci a modificare, illuminare, sbertucciare rivelare quella metafora.
Qui sotto, letti sull’onda dell’urgenza, ci sono due brani di Pensiero politico e scienza della mente di George Lakoff, (Bruno Mondadori, 2009). Fate la tara sul fatto che Lakoff è un democratico americano e concentratevi su come analizza e tratta la guerra al terrore come metafora. La lettura è integrale, salvo una piccola omissione nel secondo brano, dove salto il paragrafo in cui riporta le opinioni di alcuni militari sulla guerra in Iraq.

Idee traumatiche: la guerra al terrore

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3. Noi siamo il nostro corpo (con una digressione sulla responsabilità)

In questi giorni chiudo le telefonate e i messaggi con “incontriamoci presto, davvero”. La risposta più consueta è “speriamo”.
Mi saltano i nervi. Speriamo cosa? Speriamo in chi?

Attendiamo ogni dichiarazione, ogni voce di corridoio, ogni nuovo decreto del presidente del consiglio dei ministri come il responso di un oracolo. E nel frattempo siamo invitat* alla responsabilità.
Ma cosa significa responsabilità? Viene dalla radice latina respondēre e, ovviamente, trattandosi della capacità di rispondere ci pone in dialogo. Obbedire a un ordine non è responsabilità, anzi è deresponsabilizzazione. Nell’ottica dell’obbedienza, l’unica risposta possibile è “Sissignore”.

Ascoltare le voci delle altre persone, sintonizzarsi sulle esigenze nostre e dell’ambiente che ci circonda, concertare la nostra azione in maniera ecologica, interrogare il senso di giustizia e di libertà che è in noi, rispondere tenendo conto della complessità di tutti questi aspetti. Quella sì è responsabilità.

Il problema vero non è il covid-19, una malattia particolarmente contagiosa, il problema è che il nostro paese per una precisa volontà politica non ha le strutture per curare le persone che si ammalano.

Che cosa richiederebbe un’emergenza sanitaria? Più posti letto, più personale, più attrezzature, un accesso universale e gratuito alle cure. In nessun proclama abbiamo sentito un impegno del governo in tal senso. Ci viene imposto però di stare in casa, di recludere bambine e bambini, ci viene impedito di varcare i confini comunali, di vedere le persone care. Le uniche attività consentite sono il lavoro (se la nostra attività è ritenuta essenziale) e fare la spesa (se abbiamo ancora il denaro per farla).

Responsabilità in questo frangente potrebbe essere garantire le uscite, gli incontri e la didattica in presenza a bambine e bambini, immaginare le cautele per farlo in questo frangente è possibile. Responsabilità significa prendere in considerazione l’idea di essere infett* e asintomatic* e quindi limitare i contatti fisici ravvicinati per evitare di contagiare persone immunodepresse o affette da altre patologie. Significa prendersi cura della nostra salute mentale, stare all’aria aperta, fare passeggiate, esercizio fisico, lasciare che i corpi agiscano e interagiscano.

E invece no. Come in quel pezzo di Gaber ci vogliono lasciare solo la testa e ci chiedono di usarla esclusivamente per annuire. Ma noi siamo il nostro corpo, abbiamo una nostra materialità irriducibile, almeno finché il nostro cuore batte. Possiamo caricarci su un server? Mandarci in allegato mail? Teletrasportarci? NO.
Nessun pensiero, nessuna lotta può prescindere dai corpi. Ed ecco emergere una seconda risposta. Un secondo “che fare?”

A questo proposito trovo imprescindibile il recente contributo di Wolf Bukowski.

Invito anche a leggere fra le righe di questo articolo di Gary Kinsman, ci sono utili indicazioni per pensare un approccio safer per l’incontro dei corpi.

4. Azione diretta

L’altra espressione a cui sono diventata allergica – ve lo dice una persona che ci ha messo anni a decidersi a prendere in mano certi aspetti fondamentali della sua vita – è “ ci vuole pazienza”.
Possiamo ancora aspettare? Delegare ad altri la scelta sulle nostre vite? Io credo di no. In questo fondamentale intervento del collettivo Wu Ming ci sono dieci punti fermi per il futuro che mi paiono  imprescindibili.

Io credo che dobbiamo spingere in queste direzioni. E quindi – ecco il terzo “che fare?” – pensiamo azioni dirette individuali, ma soprattutto collettive, con le persone che ci sono vicine, con cui abbiamo affinità.

Qui sotto la leggo la voce “azione diretta” da Nè obbedire né comandare, lessico libertario di Francesco Codello.

Per inciso, quelle messe in atto il 25 aprile e raccontate sul blog di Alpinismo Molotov sono tutte azioni dirette e tutte facilmente ripetibili e riadattabili. Come dice quella canzone: è l’azion l’ideal.

Infine, se proprio vogliamo usare il frame della guerra, il solo caso in cui mi piace sta in questo ritornello

Per natura tutti eguali
vi è diritti sulla terra.
E noi faremo un’aspra guerra
ai ladroni sfruttator.

Non sia pace tra i mortali
finchè un uom’ sovr’altro imperi
i nemici a noi più fieri
sono i nostri sfruttator

Se dovessi cantare questa canzone, L’inno dei pezzenti, ometterei la seconda strofa che mi pare pervasa da sessismo e discriminazione del lavoro sessuale. Mi riprometto di riscriverla presto individuando il nemico nell’eterocispatriarcato. Quando la potrete sentire? Non appena organizzeremo uno spettacolo dal vivo.

Lo dico pubblicamente: mi rendo disponibile fin da adesso a esibirmi all’aperto, in presenza di altri esseri umani, con precauzioni di distanziamento fisico. Ci vediamo là.

Buon primo maggio!

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